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Depositi
primari della Toscana merid. e del Lazio settentrionale, ma per noi
soprattutto la possibilità (qui dimostrata) di poter trovare oro in
alcuni corsi d'acqua di quest'area, pur trovandoci fuori dal classico
dep. alluvionale italiano.
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Dai testi che il dot.
Giuseppe Pipino
mi ha messo a disposizione appositamente per il Sito: il documento l'ho
qui ridotto secondo le mie esigenze. La vers. originale è disponibile presso il Museo Storico dell’Oro Italiano.
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ORO FRA TOSCANA E LAZIO |
Implicazioni giacimentologiche e archeologiche. |
Quando nel 1983 inizia la ricerca di oro epitermale in Toscana
Meridionale, con il solo ausilio del piatto di lavaggio, il primo problema
da affrontare era costituito dalla distinzione con oro eventualmente
proveniente da filoni a solfuri, diffusi nella zona. Infatti, nonostante
che tale presenza fosse ignorata, o espressamente negata, sapevo, per
esperienza, che tutti i filoni a solfuri ne contengono tracce e che,
grazie all’arricchimento superficiale, potevano aver dato luogo a
diffusione fluviale. Lo stesso poteva essere avvenuto anche per i depositi
a oro epitermale o “invisibile”: proprio nella località tipo, a Carlin nel
Nevada, la presenza di oro ben visibile era stata osservata sulla superficie dei “filoni”, e solo dopo aver asportato la parte superficiale,
ricca, si era scoperto che il “quarzo” sottostante conteneva ancora oro,
ma in particelle microscopiche. Le mie prospezioni, iniziate nell’estate
del 1983, misero subito in luce una insospettata diffusione di oro
alluvionale, in varie parti della Toscana, e furono fin troppo enfatizzate
dalla stampa regionale (La Nazione, 19 febbraio 1984).
Una volta individuati i maggiori arricchimenti torrentizi, non era
difficile risalire alle mineralizzazioni primarie, ma restavano le
difficoltà analitiche per i campioni in roccia, dato che al tempo non
esistevano in Italia laboratori in grado di eseguire corrette analisi
quantitative per oro, se non quelle costosissime eseguite dai banchi
metallo, per coppellazione, su campioni che, comunque, dovevano essere
discretamente ricchi: università ed enti di ricerca avevano preso ad
utilizzare il metodo detto “assorbimento atomico”, che io stesso avrei
dovuto usare per la Tesi di Laurea, ma questo si era dimostrato
completamente inaffidabile, data l’impossibilità di eliminare a monte, dal
campione, tutti gli altri elementi metallici che davano interferenze. Il
procedimento di analisi con il microscopio elettronico a scansione (SEM)
era di là da venire. Grazie alla collaborazione della mia ditta (TEKNOGEO
Snc) con compagnie minerarie canadesi, potevo comunque far analizzare
alcuni campioni in laboratori specializzati esteri, dove le analisi erano
eseguite di routine, e a costi contenuti, con il metodo “fire assay”
(coppellazione): nel 1984 le analisi furono eseguite dalla COMINCO
Exploration, tramite la succursale italiana e in collaborazione con
l’amministratore Raymond Scharrer, che per decenni aveva operato come
prospettore minerario dell’importante compagnia e, negli anni 1985-86, dalla
CAL-DENVER Resources in collaborazione con il prospettore italo-canadese
Luca Riccio, poi amministratore della CAL-DENVER Italia, costituita a
Torino (il 25 marzo 1986) proprio per esplorare le manifestazioni a oro
epitermale che avevamo individuate e che ci furono “sottratti” dalle
società minerarie parastatali (PIPINO e RICCIO 1985-88, PIPINO 1992).
Alla fin fine, dopo decenni di esplorazioni, le conoscenze sono ancora
quelle da noi accertate e da me pubblicate (PIPINO 1988): l’oro
epitermale,
o “invisibile” è abbastanza diffuso in rocce carbonatiche silicizzate che
ospitano mineralizzazioni ad antimonite o a caolino (e allume), ma i
fenomeni metallizzanti sono stati poco intensi (si parla di bassa
solfatizzazione) e nei depositi, sempre poco estesi, i tenori d’oro
raggiungono raramente pochi grammi per tonnellata di roccia (gr/T), ovvero
poche parti per milione (ppm).
Anche per quanto riguarda i depositi “classici” a solfuri, massicci o
filoniani, i tenori in oro sono bassi, ma interessanti perché associati ad
altri metalli utili, quali rame, argento e piombo, che sono stati oggetto
di antico sfruttamento e di recenti ricerche e coltivazioni.
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L'oro
nelle mineralizzazioni a solfuri della Toscana Meridionale. |
In Toscana, oggetto di tre consecutivi programmi di ricerca di base, prima
delle mie ricerche l’oro non veniva affatto considerato, perché ritenuto
inconsistente dagli ambienti accademici di riferimento. Questi, infatti,
si erano limitati, tutt’al più, a ricordare antiche segnalazioni della sua
presenza in tracce sporadiche all’interno di alcune mineralizzazioni a
solfuri, in particolare, per quanto riguarda la Toscana meridionale, quella di SAVI (1847), ripresa da
autori successivi, che parla di diversi grammi per tonnellata in piriti e
calcopiriti dei giacimenti nei pressi di Massa Marittima (Serra Bottini,
Val Castrucci, Capanne Vecchie). I contenuti riferiti dall’autore vanno in
realtà presi con beneficio d’inventario, trattandosi di una pubblicazione
promozionale a cura della società concessionaria in cerca di
finanziamenti. Le analisi eseguite dalla COMINCO nel corso delle mie
prospezioni, fra il 1984 e il 1985, evidenziarono un’insospettata povertà
di oro in mineralizzazioni ricche di calcopirite, dalle quali ci si
aspettava di più: praticamente assente in quelle di Molini e Aquilino
nell’Argentario, tracce appena percettibili a Capanne Vecchie e a
Serrabottini, qualche diecina di ppb (parti per miliardo) in quelle di
Montieri. Tracce più consistenti risultarono essere presenti in pressoché
tutte le vene quarzose con pirite presenti negli scisti del Verrucano e,
soprattutto, nei filoni a solfuri misti ricchi di solfosali: fino a 1,5
ppm in quelle di Monterotondo-Frassine, 0,600 ppm circa in quelle di
Ciciano-Fogari, 0,518 in quelle del Carpignone, 0,5 in quelle di Batignano,
1,3 in quelle di Scerpena, fino a 10 negli arricchimenti superficiali di
Ponte San Pietro. L’argento, negli stessi campioni, risultò essere di
diecine e centinaia di volte più abbondante dell’oro, e il rame, sempre
presente, in alcuni campioni ricchi di tetraedrite raggiungeva tenori
percentuali: i contenuti di questi due metalli giustificano il sicuro
interesse minerario delle mineralizzazioni in epoca medievale, nonostante
la loro scarsa estensione.
Le mineralizzazioni a solfuri più diffuse si trovano, e sono stati
coltivate, nei dintorni di Massa Marittima. Per quanto riguarda la
presenza d’oro, a parte quella di Savi, si avevano poche notizie più o
meno certe. D’ACHIARDI (1872) riferisce che, nel corso dei trattamenti
metallurgici, a Fenice Capanne furono prodotti alcuni etti d’oro dai
concentrati di calcopirite, ma pare che si riferisse alle notizie
dell’Autore precedente. Tracce d’oro (0,12 gr/T) furono riscontrate nella
pirite di Boccheggiano, analizzata da MINGUZZI (1947). BURTET FABBRI e
OMENETTO (1974) segnalano “tracce di oro nativo” nel minerale a solfuri
misti raccolto dalle discariche di Poggio al Montone e Castellaccia, sulla
sinistra del Fosso Zanca.
Campioni di quarzo riccamente mineralizzato a pirite e calcopirite di
Capanne Vecchie, raccolti da me e analizzati dalla COMINCO, hanno dato
scarse tracce d’oro (10-20 ppb), ma discreti contenuti d’argento (20-50
ppm) e di bismuto (1000-2000 ppm). I migliori risultati si sono avuti da
cinque campioni di solfuri massivi, in ganga quarzosa, raccolti nella
discarica del Carpignone, che hanno dato i seguenti contenuti in ppm (o
gr/T):
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Camp. Oro argento piombo zinco rame arsenico
antimonio bario |
01
0,518 68 >20.000
>20.000 6.200 475
105 66 |
02 0,145
16 403
25.622 1.246 474
74 62 |
03 0,080
25 >20.000 >20.000
3.451 240
84 54 |
04 0,043
93 >20.000 70.938
5.503 351
84 319 |
05 0,040
16 >20.000 >20.000
1.581 381
121 48 |
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Da notare che, in questa zona, il filone di quarzo mineralizzato supera i
10 metri di spessore e fa passaggio alle rocce alluminizzate e
caolinizzate che ospitavano l’antica miniera di allume del Cavone; nel
corso degli ultimi lavori, finalizzati soprattutto alla ricerca di masse
piritose (per alimentare lo stabilimento di Scarlino), vi è stata
riconosciuta, in profondità, una zona di silicizzazione di circa 30 metri
di spessore, con poche tracce di pirite. Il calcare silicizzato di
contatto affiora localmente, e le analisi eseguite dalla COMINCO vi hanno
riconosciuto costanti tracce d’oro (200-300 ppb), con elevati contenuti
d’arsenico (1000-1500 ppm). A mio parere, è questa una delle zone più
indiziate, in Toscana meridionale, per la possibile presenza di
mineralizzazione ad oro epitermale; essa, inoltre, possiede ancora, come è
stato evidenziato dai lavori suddetti, discreti quantitativi di solfuri
misti nel corpo centrale del filone, che non è stato coltivato sotto il
livello idrostatico (q. 101).
Altra zona interessante si trova all’estremo limite meridionale della
Toscana, ai lati della parte montana del Fosso del Tafone che si sviluppa
prevalentemente in comune di Manciano. Questa parte del Fosso si inserisce
in una struttura tettonica a gradinate, indicata come Graben del Tafone, che si allunga per oltre 10 chilometri in direzione NW-SE e divide
in due la parte meridionale dei Monti Romani. Interessa una potente
successione di filladi quarzifere triassiche (Scisti del Verrucano) con
modeste coperture di calcare cavernoso e di sedimenti calcareo-marnosi di
S. Fiora, con relative coperture mioceniche e quaternarie (DESSAU et Al.
1972). Lungo il graben, in particolare nelle sue parti estreme, si trovano
varie mineralizzazioni antimonifere, che hanno dato luogo a coltivazioni
minerarie, antiche e recenti: nella parte meridionale si trovano le
miniere Tafone, Tafone sud e Montauto, nella parte settentrionale l’antica
miniera di Poggio Fuoco (o Macchia Casella) alle falde sud-orientali del
Poggio Pietricci, e le vicine ricerche del Piaggione, della Campigliola e
del Podere 4° dell’Ebreo.
Le analisi eseguite dalla CAL DENVER, nel 1985, hanno evidenziato discrete
tracce d’oro in pressoché tutti gli affioramenti mineralizzati ad
antimonite presenti lungo il graben (da 10 a 500 ppb): contenuti maggiori
(fino a 5 ppm) sono stati riscontrati poco ad ovest, nella vecchia miniera
di antimonio e cinabro di Capita, in comune di Capalbio.
Si riportano le analisi, in ppm (o gr/ton), dei principali elementi
riscontrati in alcuni dei campioni di silice con presenza di antimonite
raccolti nelle zone di Capita (Camp. 01), Piaggione (02), Tafone (03) e
Montauto (04): |
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Camp. Oro argento
arsenico bario antimonio tallio mercurio |
01
1,42 22,7 134 999
15.009 43
41 |
02
0,485 9,2 27 4.611
1.768 2,5
28 |
03
0,225 5,6 854 227
2.121 3 16 |
04
0,310 6,4 1.212 125
1.285 2,2 48 |
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Le zone di Capita e del Piaggione furono comprese nei permessi Capita 1,
Capita 2 e Capita 3, chiesti dalla CAL DENVER, mentre le miniere Tafone e
Montauto erano, al tempo, concessioni vigenti, seppur abbandonate, delle
società parastatali. Gli alti tenori d’oro propagandati da queste nel
corso delle ricerche successive (diecine di grammi per tonnellata),
risultarono poi del tutto falsi (PIPINO, in corso di stampa).
Ai lati del graben, nelle zone periferiche dei giacimenti antimoniferi, si
trovano anche manifestazioni a solfuri misti, negli scisti del Verrucano e
nelle rocce che li accompagnano. Presso la miniera Tafone nord, alle
pendici del M. Maggiore, affiorano, nel calcare cavernoso, filoni quarzosi
con pirite, arsenopirite e antimonite. La mineralizzazione più importante
è però quella che si sviluppa qualche centinaio di metri a ovest del
vecchio castello di Scerpena, al Poggio Cireppone, consistente, a quanto è
dato di vedere, da filoncelli quarzosi, con pirite, calcopirite, blenda e
galena argentifera, che attraversano il macigno in contatto tettonico
verticale con la formazione argilloso-calcarea di S. Fiora. La presenza,
nella zona, di abbozzi di gallerie e dei resti di diecine di pozzetti
analoghi a quelli di Serrabottini, testimoniano antiche attività
minerarie: infatti, è nota la concessione del 10 agosto 1164 con la quale
l’imperatore Federico I (Barbarossa) conferma alcuni beni al conte
Ildebrando, in particolare il castello di Scerpena, con tutta la corte, il
distretto e la sua miniera d’argento.
Le analisi eseguite dalla COMINCO nel 1984, su campioni da me raccolti
nelle vecchie discariche, evidenziarono discreta presenza di oro, fino a
1,5 gr/T.
Un’altra antica miniera d’argento si trovava dall’altra parte del
graben,
negli scisti del Verrucano che costituiscono il massiccio Monte
Bellino-Monte della Passione, dove si registrano i toponimi Fosso
Argentiera e contrada Argentiera. L’unica mineralizzazione oggi nota, in
questa zona, è costituita da alcuni affioramenti di baritina, a sud della
contrada Argentiera, fra gli scisti del Verrucano e una placca di scisti
cloritici e calcari della Formazione di Tocchi. Poco a oriente, in
località Gricciano, in corrispondenza del contatto fra un lembo di calcare
cavernoso e sedimenti argilloso-calcarei di S. Fiora, è nota la presenza
di emanazioni gassose e di una sorgente termo-minerale. Secondo DESSAU et
AL (1972), una ventina d’anni prima uno degli autori aveva sorpreso un
gruppo di paesani di oltre Fiora (laziali) intenti “...ad escavare
affannosamente l’oro”
non lungi dalla contrada Argentiera”, episodio che viene ridicolizzato
dagli stessi Autori, i quali ritengono che i “profani” erano stati
ingannati dalla presenza dei cristallini di pirite contenuti negli scisti
del Verrucano. Tuttavia, le mie prospezioni evidenziarono la presenza di
oro alluvionale nelle sabbie del Fosso Argentiera, dalla confluenza nel
Fiora in su, fin dove fu possibile accedere: verso monte, infatti, la
vegetazione diventa tanto fitta e intricata da impedire l’accesso, non fu
quindi possibile individuare la mineralizzazione primaria da cui proviene
l’oro e, soprattutto, gli abbondanti granuli di ossidi di ferro e gli
sporadici granuli di cinabro raccolti nell’alveo, fin verso quota 250.
Appare evidente che nella zona, alle falde meridionali del M. Bellino,
deve trovarsi una mineralizzazione
primaria oggetto di antichi interessi
minerari che hanno lasciato tracce nelle toponomastica (Argentiera) ma
che, probabilmente, non ebbero grande sviluppo a causa della sua posizione
confinaria: proprio nel fosso dell’Argentiera passa, infatti, il confine
regionale fra Toscana e Lazio, coincidente con l’antico confine degli
stati della Chiesa (Patrimonio di San Pietro).
La mineralizzazione, comunque, non può essere molto dissimile da quelle,
meglio note, che si trovano nell’altro versante del M. Bellino, nella zona
di Ponte San Pietro, in analoghe condizioni giaciturali. |
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LE MINERALIZZAZIONI DI PONTE SAN PIETRO |
Nella zona di Ponte San Pietro, in comune di Ischia di Castro, il fiume
Fiora è impostato in una grossa faglia, con direzione NNW-SSE, che mette
in contatto tettonico due complessi geologici differenti, per composizione
litologica, per assetto strutturale e per età. A est, nel lato sinistro
della valle, affiorano rocce vulcaniche quaternarie, per lo più
piroclastiti e tufi di tipo latitico, ricoperte da banchi di travertino
recente; il lato destro, occidentale, è invece dominato dal complesso di
scisti filladici del Verrucano, di età compresa fra il Permiano sup. e il
Triassico, con associati Calcari Cavernosi (Triassico-Cretacico) e Calcari
Massici (Retico).
L’imponente massiccio filladico del M. Bellino è interessato e delimitato
da grosse faglie, di età e andamento diverso: le più tardive, ed evidenti,
consistono in grosse fratture distensive, ad andamento grossolanamente
ortogonale alla faglia del Fiume Fiora che spezzano e dislocano di poco,
in corrispondenza del contatto. Le faglie sono evidenziate, sul terreno,
da isolate pareti verticali, specie nelle filladi, dalla presenza di
brecce tettoniche di frizione, da vistose alterazioni argillose e/o
talcose delle pareti, da silicizzazione dei calcari coinvolti, dalla
diffusa presenza di ossidi di ferro e da locali fuoriuscite di sorgenti
ferruginose. Le brecce tettoniche di frizione possono raggiungere spessori
intorno ai 5 metri e sono spesso impregnate e cementate da pirite e/o da
ossidi e carbonati di ferro, derivati dalla sua alterazione, con barite
e/o quarzo, manganese in alcune zone: al loro interno si insediano,
localmente, filoni e lenti mineralizzate a quarzo, barite e solfuri misti
che sono stati oggetto di passate ricerche e coltivazioni, le più recenti
ad opera della Montecatini con due permessi di ricerca, “Pelagone” in
comune di Manciano e “Poggio Canaletto” in comune di Ischia di Castro,
separati dal Fosso Gamberaio che fa da confine regionale.
La faglia mineralizzata più importante è quella più settentrionale (n. 3
in carta), che delimita a nord il massiccio di M. Bellino e, dopo essere
stata interrotta e dislocata di poco da faglie traverse, prosegue per
alcuni chilometri, in direzione NW. Essa pone in contatto tettonico le
filladi con calcari cavernosi e con calcari massicci, oltre che con
livelli calcareo-arenacei, appartenenti alla formazione delle Argille
Scagliose (Paleocene), e con livelli arenacei della formazione del Macigno
(Eocene-Oligocene). In corrispondenza dei contatti i calcari, ma anche i
sedimenti arenacei, sono spesso profondamente silicizzati e mineralizzati.
Inoltre, lungo la faglia si trovano isolate e limitate lenti
mineralizzate, evidenziate in affioramento da “brucioni” di ferro e da
sorgenti ferruginose, la più netta delle quali fuoriesce nella parte
terminale, nell’alveo del fiume Fiora, con portata di poco
più di mezzo litro al secondo: la sorgente era chiamata “l’acqua gialla” e
gli abitanti della zona le attribuivano virtù terapeutiche (FRATINI 1937).
Altre sorgenti ferruginose di una certa importanza fuoriescono, secondo lo
stesso Autore, presso il podere Scarceta, nel fosso Gamberaio e nei poderi
Marmosina e Pelagone: le due ultime contribuiscono, con altre, “…a formare
il ruscello di acque ferruginose denominato del Pelagone”. Indizi di
mineralizzazione sono stati riconosciuti, in particolare, nelle zone di
Fosso Gamberaio, Sottopoggialti, Diaccialone e (fuori dalla carta) Poggio
della Pila. La faglia sembra proseguire ancora per chilometri, fino a
comprendervi le mineralizzazioni antimonifere di Poggio Fuoco. Il filone
più interessante è tuttavia quello che affiora nell’alveo del Fiume Fiora
in comune di Ischia di Castro, circa 500 metri a valle del nuovo ponte, al
termine orientale della faglia indicata col n. 4, filone che viene tenuto
costantemente “fresco” dalle periodiche piene del fiume.
All’epoca del mio sopralluogo il filone era ancora ben affiorante sulla
superficie dell’acqua: potente poco più di un metro, era delimitato da
breccia quasi completamente "piritizzata", con una tipica tessitura
festonata; il quarzo, componente principale del filone, presentava
frequenti geodi e
druse, con all’interno piccoli cristallini limpidi e,
talora, cristallini di pirite, calcopirite, arsenopirite e tetraedrite, o
aghetti di antimonite e di
bournonite. In alcuni punti i solfuri
diventavano prevalenti e assumevano una struttura massiva; il minerale più
abbondante era la pirite ma, localmente, prevalevano arsenopirite e
tetraedrite. Dei quattro campioni raccolti, le analisi eseguite dalla
COMINCO evidenziarono tenori d’oro variabili da 0,5 ad oltre 10 grammi per
tonnellata, con valori minori nel quarzo povero, maggiori nei campioni
ossidati a prevalenti solfosali: in questi ultimi fu evidenziato anche un
discreto tenore d’argento (fino a 180 gr/T) e notevoli contenuti di rame
(più di 10.000 gr/T), di arsenico (fino a 6400 gr/T), di antimonio (fino a
4200 gr/T) e di piombo (fino a 3000 gr/T).
La sorpresa maggiore venne dal
lavaggio delle sabbie del torrente, a valle
del filone, col ritrovamento di diffusa presenza di oro in microscopici
granuli e sottili scagliette, ma anche di minuscole pepite e di scaglie
più spesse e grosse, fino a 4 millimetri, con evidenti tracce di
ricristallizzazione. Le analisi SEM di 7 granuli inviati al National History Museum di Londra e analizzati all’università di Cape Town
(nell’ambito di un programma comune fra i due Enti) vi evidenziarono
contenuti percentuali d’oro variabili da 75,29 a 81,19, di argento da
18,49 a 24,53, di ferro da 0,01 a 0,24.
Nel concentrato raccolto, oltre ad abbondante cinabro, ai soliti minerali
pesanti (tra i quali anche thorianite e thorite), spiccavano microscopiche
sferule d’oro, la cui presenza avevo già appurato in
concentrati auriferi
della Val Padana, specie nel torrente
Elvo a valle della
Bessa (PIPINO
1998). Nel 1989 le sferule furono oggetto di studi da parte di esperti
canadesi: i risultati meritano un capitolo a parte (vedi qui a destra,
sferule d'oro), tenuto conto del
particolare contesto archeologico in cui furono trovate.
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