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Pag. utile
anche per ricerche scolastiche sulla conoscenza dell'oro nella storia. |
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Nei
tempi ci furono diverse persone che si dedicarono scientificamente allo
studio dell'oro ed alla sua "lavorazione" ed altre (quando non gli stessi medesimi) fortunatamente
ce ne fecero pervenire gli esiti tramite importanti scritture. Andando
cronologicamente a ritroso i più significativi illustri al merito dei
quali abbiamo storicamente informazioni furono probabilmente Agricola, Plinio il Vecchio, Strabone,
Diodoro Siculo, Polibio, Agatarchide di Cnido
(II sec. a.C.) ... ed altri ancor prima di questi.
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Agricola
(nome per così dire d'arte e preso dal latino perché lui in
realtà era tedesco) è noto soprattutto per il suo De Re Metallica,
opera pubblicata nel 1556 e che per due buoni secoli a seguire rimarrà
punto di riferimento assoluto su qualsiasi cosa riguarderà la
metallurgia, non solo nel suo aspetto chimico (a quei tempi era uno dei
più preparati sulla materia), ma anche minerario.
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Plinio il
Vecchio nacque nel 23/24 d.C. e morì durante l'eruzione del Vesuvio
del
79 (quella che distrusse Pompei ed Ercolano). Dedicò l'intera vita all'apprendimento
di qualsiasi materia, raccogliendo informazioni in ogni dove, su ogni
testo e producendo a sua volta una quantità enorme di colti documenti
dai contenuti provenienti sia da quanto sopraddetto sia da esperienze
personali (era ad es. Procuratore della Provincia spagnola di Terrascona, area
ricca di miniere d'oro); detti testi, al
di là delle inevitabili inesattezze dovute all'epoca in corso,
risulteranno fondamentali come base di partenza per il progresso nei
secoli a seguire e sono a tutt'oggi fonte storica d'inestimabile valore.
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Tra i suoi
scritti, di sicuro pregio il famosissimo Naturalis historiae ("Storia
della natura", giuntoci per fortuna integro), il quale raccoglie in
37 Libri tutto il sapere del quale l'autore venne a conoscenza
durante i suoi infaticabili studi sulla natura, sulle scienze ed altro.
Questa sorta di enciclopedia, pur con tutti i |
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N.B.
I Libri di allora naturalmente non sono gli stessi intesi da noi
oggigidì (non c'era la stampa...), ma credo si trattasse di scritture su
vari fogli di papiro avviluppati per formare
così un rotolo composto da più fogli denominato appunto "Libro". |
suoi
limiti, può essere considerata la <<summa>> del sapere
scientifico e tecnico dell’antichità ed i suoi contenuti serviranno
come vasto prontuario di facile consultazione a tutti i pensatori che in
seguito affronteranno temi naturalistici, specifici o universali fino a
tutto il Medioevo (e non solo), oltre ad aver rappresentato nei tempi un
grande esempio di opera fine a se stessa, cioè non mossa da intenti
speculativi. Gli ultimi
5 Libri che la compongono trattano di scienze
mineralogiche, minerarie e metallurgiche; c'è scritto ad es. che l’oro
già allora veniva estratto dalle sabbie dei fiumi, dalle vene mediante
scavo di gallerie e da vasti depositi conglomeratici (le
aurifodine)
con il |
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sistema della
<<ruina montium>>.
Inoltre, il metallo trovato in discrete masse non si
cuoceva perché poteva già essere adoperato cosi
com’era, mentre le rocce aurifere (solfuri
ecc.) dapprima si macinavano
nei mortai e poi si pestavano, lavavano per infine fonderle in
contenitori (detti tascanio) fatti con una terra bianca simile
all'argilla, la quale resisteva benissimo alle temperature occorrenti.
Sempre i
testi di Plinio riportano al lettore odierno le antiche
conoscenze su di un altro metodo possibile per ricavare oro, cioè
dall’Orpimento (è un solfuro, tossico perché minerale d'Arsenico) che veniva
a quei tempi estratto in Siria quale colorante per la
pittura artistica e ci dice che Caio, imperatore insaziabile del nobile metallo, ne fece cuocere grandi quantità ottenendone
oro eccellente, ma in così scarsa quantità che finì col rimetterci.
Plinio accennò anche al fatto che l’oro si purgava (purificava dalle
impurità) cocendolo
con il piombo e, sempre per purificarlo, descrisse un sistema
alternativo a quello che era solitamente in uso: <<si cuoce in un vaso di terra con una quantità di sale che sia due volte tanto e con tre
volte tanto di "misy "(?) e di nuovo con due parti di sale ed una parte di certa pietra che si
chiama schisto[...] . L’0ro rimane puro ed incorrotto...»; in tal
modo e secondo le usanze di allora la cenere residua dalla combustione
(quella cioè che aveva assorbito il "veleno" dell'oro),
poteva essere utilizzata in varie applicazioni mediche.
Strabone (c. 63 a.C./20 d.C.). Come già detto altri scrittori avevano precedentemente accennato all’oro e alla sua
lavorazione. Nel suo III Libro della Geografia cita le innumerevoli miniere della Spagna
e per quanto riguarda la regione dei Pirenei scrive: <<Si dice che nella terra aurifera si
trovano talora masse del peso di più di una mezza libbra, che sono chiamate palae e che necessitano di scarsa
raffinazione. Dicono anche che rompendo le pietre vi si
trovano piccoli pezzi d’oro che assomigliano a capezzoli e che quando l’0ro viene
fuso e raffinato per mezzo di una terra alluminosa si ottiene l’elettro; e ancora, quando l’elettro
(è un a lega d'oro e d'argento che si rinviene in natura, nota di
Z.G.) viene raffinato, l'argento viene bruciato via mentre l’oro
resta. La lega
è facile da fondere anche se ha la durezza della pietra. Per questa ragione
è preferibile fondere
l’oro con la paglia, perché la fiamma, data la sua morbidezza, è adatta ad una sostanza che
cede e fonde facilmente; il fuoco di carbone ne consuma invece molto,
perché a causa della sua intensità fonde troppo l’oro e lo porta via sotto forma di
vapore ».
Lo stesso autore, nel IV Libro riporta un’informazione tratta da
uno dei Libri della Storia Universale di Polibio
(c. 205- 123 a,C.) a lui precedente ed i cui testi originali non ci sono pervenuti:
<<Polibio dice che ai suoi
tempi fu trovata, quasi di fronte ad Aquileia, nel paese dei Taurisci
Norici, una miniera d’oro così facile da estrarre che togliendo il terreno
superficiale per uno spessore di soli due piedi si trovava subito oro sciolto, e gli scavi non erano
più profondi di cinque piedi. E dice ancora che una parte dell’oro, con le dimensioni di un fagiolo o di
un lupino, era immediatamente puro; per il resto soltanto l'0ttava parte veniva
perduta durante la fusione e, benché il rimanente doveva essere raffinato,
l’operazione era molto vantaggiosa».
Diodoro Siculo (I sec. a.C.), nel V libro della Biblioteca Storica, racconta
invece che in Gallia si trovava
molto oro, ma non nelle miniere, bensì nei fiumi che erodono i fianchi delle montagne:
<<... i cercatori raccolgono le sabbie aurifere, pestano la terra che contiene i granelli,
la lavano per poi portarla via e mettono il rimanente nei forni, a
liquefarsi. Nel suo III Libro parla anche delle miniere egiziane,
ma riportando sostanzialmente quel che già era stato precedentemente
divulgato da Agatarchide di Cnido (vissuto un secolo prima di lui) in
vari testi e del quale ultimo merita riportare qui per esteso un
interessante paragrafo tratto dal suo fondamentale "Delle cose
sul Mar Rosso" , che descrive inoltre dettagliatamente
anche alcune delle metodiche principali riguardanti il come si
lavorasse a quei tempi nelle miniere egiziane:
Agatarchide
(II sec. a.C.) "... qui si trovano delle vene di marmo
bianchissimo (quarzo, s'intende ovviamente, nota di zg.) che
attraversano la roccia nera e sono scavate in tortuose
gallerie da una moltitudine di condannati a vita. Il minerale scavato
viene portato fuori da ragazzi e pestato in frantoi di pietra da uomini
minori di trent'anni. le donne depongono i frammenti nei molini e,
stando in tre da entrambi i lati, fanno girare le mole fino a che il
materiale non sia ridotto come farina. I "seranghei" ricevono
la roccia polverizzata dalle donne e la lavano su tavole di legno poco
inclinate, versandovi sopra dell'acqua di modo che la terra scorra via e
l'oro vi resti come materia pesante; di tanto in tanto agitano la pasta
con le mani per agevolare lo scorrimento e, alla fine, sollevano
leggermente la materia terrosa con delle spugne finché la polvere d'oro
è ben purgata. I fonditori ritirano e pesano la polvere d'oro, la
mettono in un vaso di terra aggiungendovi, in proporzione, un pezzo di
piombo, mucchi di sale, un po' di stagno e della crusca d'orzo; il vaso
viene chiuso e messo in una fornace a cuocere ininterrottamente per
cinque giorni e cinque notti. Quando è convenientemente raffreddato si
trova oro puro."
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Una
curiosità: Il
Papiro di Leyda, o Papiro delle Miniere d'Oro, è il più
antico studio pervenutoci non solo a riguardo della lavorazione
dell'oro, ma della metallurgia in generis ed è costodito
presso il Museo Egizio di Torino. |
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Approfondimenti di questa pagina
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