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Sezione
storia aurifera Gr. di Voltri, cioè Ovadese, Val Gorzente ecc.
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Questa
pagina di prefazione sulla storia dell'oro rinvenibile nei monti e fiumi di Ovada è l'estratto dell'articolo Oro nei monti di Ovada, di
Franco Bandini (vedilo
se per esteso con altre sue foto). La seconda parte qui presente
tratta invece delle
attenzioni che rivolse il noto cercatore Giovanni Aina intorno al 1965
sullo sfruttamento aurifero della
zona. |
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(...) l’oro è di casa e la
natura ne parla incessantemente, ad ogni passo: qui le lunghe e
doloranti teorie di schiavi romani hanno rimosso, in secoli di duro
lavoro, quegli enormi ciottoli rosastri che si notano ammucchiati sui
due greti del fiume Gorzente, l’antico Amporium dei latini. Qui, in
epoca più tarda, sono arrivati i Saraceni, attratti dallo stesso
miraggio: e poi i monaci, pii ed industriosi, del monastero si San
Salvatore di Pavia, autorizzati nel 712 a “lavare” l’oro dalle
sabbie miracolose con una donazione di Liutprando, riconfermata nel
1.121 da Callisto II, papa: seguiti, all’estinguersi dell’ordine, da
alessandrini e genovesi, e persino da quel milanese e maresciallo Botta
Adorno che si fece una celebrità nel 1714 per aver dichiarato, scatenando le
ire e le sassate di “Balilla”, che non avrebbe
lasciato ai genovesi altro che ... gli occhi per piangere. |
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Il fiume d’oro. Il corso del Gorzente nei pressi
di Lerma. Gli enormi accumuli di sassi sulla riva, indicati dalle frecce,
sono i detriti della lavorazione dell’oro romana e saracena. Il lavoro
accanito compiuto nel corso di tanti secoli ha di fatto cambiato persino l’aspetto
della zona che ora appare sconvolta e arida. |
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Sempre sulle piste dell’oro, "risalendo coi
secoli", ecco
arrivare ditte inglesi e francesi, spagnole ed americane, dedite tutte a
traforare i monti con centinaia di gallerie: l’Ottocento è l’epoca
del vero “golden rush”, della corsa all’oro piemontese (vedi in
approfondimenti le
attività intraprese da C. Baldracco ed altri a seguire). La
produzione annuale del “giallo signore” di questa ristretta zona
aumenta sino a 50 chili, ed affluiscono capitali sempre nuovi, sempre
nuove braccia che non esitano di fronte alle fatiche sovraumane di bucare
la montagna nei suoi recessi più impervi. Quando si trova un filone, i
minatori accendono grandi fuochi di gioia, e la ditta imprenditrice paga
tre giornate di salario in più. Ad ogni istante sembra di aver messo le
mani sul “vero” filone che farà del Piemonte la seconda edizione
della California e del Klondike. Le speranze cadono ad una ad una, con l’inizio
del secolo a venire: le ditte falliscono in rapida successione e se ne
vanno di furia, abbandonando i costosi impianti trascinati con grandi
sforzi sino lassù. Nessuno si preoccupa delle vecchie gallerie
abbandonate, nelle quali i massicci tronchi imputridiscono lentamente.
Ogni tanto si sente un cupo rombo, e la terra freme leggermente: un
braccio, una galleria intera sono franati, distruggendo il lavoro di talpe
degli uomini. |
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Giovanni
Aina. |
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Giovanni Aina
(puoi vedere a lato per un'intervista che gli venne fatta) aveva evidentemente
sentito giusto, perché ora è uno dei tre “coltivatori” di rame in
Italia. Ha ottenuto una grande concessione nelle montagne sopra Ferriere
di Piacenza (anche qui terreni già conosciuti sin dall’epoca romana),
ed ha cominciato a portare alla sua fabbrica camionate su camionate di
rocce. Prima le frantuma in pezzatura grossa, poi passa il materiale così
ottenuto in un immenso tamburo rotante di robustissimo acciaio caricato
con sessanta quintali di grosse palle di ferro, che macinano tutto
quanto. E quindi “flotta” la polverina che ottiene attraverso varie
vasche, nelle quali cade goccia a goccia, e per ognuna, un acido
diverso. E’ sorprendente osservare come sulla superficie liquida della
prima si formi una specie di schiuma scura che nelle successive diventa
sempre più chiara e luminosa: in quelle schiume, il rame si concentra
sempre più, sinché nell’ultima ha un titolo del 19 o 20 per cento.
Quando Aina è arrivato a questo, fa seccare il materiale e lo vende
alle fonderie belghe, francesi e spagnole, a navi intere. Chi lo assiste
in queste operazioni sono i due suoi straordinari figlioli, Luciano, che
è il maggiore e Clara, chiamata la “chimica” della famiglia: mentre
Luciano, un ragazzo alto e allampanato corre su e giù per le montagne a
cercare campioni di minerali, Clara li prende con le sue mani delicate,
li sminuzza, li passa e ripassa nelle sue storte e provette per
titolarli, per vedere quale segreto rinchiudono. Dalle sue labbra pende
l’intera famiglia: dal responso che darà, dipende l’aver fatto o no
il “colpo grosso”. Questo “colpo grosso” pare ci
sia stato qualche settimana fa, quando Giovanni è ritornato dalla zona
di Lerma con un paio di chili di campioni prelevati dopo due
giorni di ricerche. Clara ha compiuto con minuzia e maggiore attenzione
del solito tutta la complicata trafila delle sue operazioni e poi ha
dato la grande notizia: in quei campioni c’era all’incirca un grammo
e mezzo di oro per quintale, cioè almeno la metà in più di quanto si
considera il limite economico di sfruttamento. Gli Aina non si sono
messi a ballare di gioia perché una lunga esperienza li ha abituati a
non farsi illusioni ed a non correre con la fantasia: ma ne sentivano
una gran voglia, tanto più che avevano fatto le cose per bene. Invece
di prelevare campioni “ricchi” cioè delle zone sicuramente
aurifere, avevano portato a casa prelievi poveri, in modo da esser
sicuri che comunque, il minimo industriale fosse realmente tale. Il programma di Giovanni
Aina, a
questo punto, è stato semplice: ha chiesto quello che per l’antiquata
legge mineraria italiana si chiama un “permesso di ricerca”. Appena
lo avrà, eseguirà nella zona coperta da permesso saggi più abbondanti
ed estesi: e quindi, se Clara, china sui suoi strumenti, dirà ancora
una volta di si, costruirà una strada di accesso alla concessione e
passerà al setaccio la montagna intera: indifferente al percorso dei
filoni, alle indicazioni lasciate dai romani, saraceni ed inglesi, si
baserà soltanto sul titolo minimo complessivo dell’intera montagna.
La sua persuasione è che in ogni chilo di roccia, in ogni metro cubo di
terra, ci sia un minimo di oro allo stato diffuso. Coi suoi frantoi, con
le vasche, egli lo tirerà fuori. Si trova nella stessa situazione dello
scienziato che pensa all’oro contenuto nel mare: ve n’è 0,065
grammi per tonnellata d’acqua e vi sono 1.367 milioni di chilometri
cubi di oceani che fasciano la terra.
Quanto a dire che il mare
custodisce circa 89 miliardi di tonnellate d’oro che attendono chi
riesca a separarle con un metodo più redditizio di quello che costa
prenderle.
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Per passare invece ai luoghi di ricerca
in
uso oggigiorno in zona, clicca
qui. |
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