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Pubblicato su Gente/Gioia nel 1965 e qui adattato
secondo le esigenze del Sito
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Dal nostro inviato
speciale,,Ovada,
mese di maggio |
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Con
un nuovo procedimento, un industriale che già separa rame dalle rocce,
si propone di estrarre tutto l’oro contenuto nelle vecchie zone
aurifere dei laghi della Lavagnina, nel basso Piemonte. L’impresa
comincerà tra breve e rinnoverà con mezzi moderni i tentativi che
già in epoca romana vennero eseguiti con lavori sicuramente imponenti.
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Oro
nei monti di Ovada |
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Tra qualche settimana
Giovanni Aina e suo figlio Luciano si infileranno con un autocarro su
certe montagne che sono sopra Lerma, in quel di Ovada, lo caricheranno
di rocce giallastre e se le porteranno a Farini d’Olmo, a 50 Km. Da
Piacenza, dove abitano e dove possiedono una avviata azienda mineraria.
Triteranno queste rocce nei frantoi di loro invenzione e costruzione,
faranno passare la polvere sottile così ottenuta attraverso una serie
di bagni in acidi diversi, e ne otterranno oro.
Se questo oro sarà più
di un grammo per quintale, allora torneranno nell’Ovadese, apriranno
una strada che arrivi sulla cima delle montagne prescelte e cominceranno
a demolirle, passandole al “tritacarne”: in altre parole,
estrarranno dalla zona tutte le molecole d’oro che essa contiene. Con
ogni probabilità ne contiene molte, forse più di quanto, già oggi, è
lecito sperare.
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La notizia,
sbagliata,
della “scoperta dell’oro” (sbagliata perché
non si tratta certo di una "scoperta", bensì di cosa più che
nota) in questo tranquillo angolo del Piemonte
ha subito acceso le fantasie e dato la stura alle chiacchiere. Tutte le
popolazioni, di Lerma come di Silvano, di
Casaleggio come di
Mornese,
sono state percorse da un brivido di eccitazione, quasi risvegliate da
un torpore secolare alla magica parola. Qui, infatti, l’oro è di casa
e la natura ne parla incessantemente, ad ogni passo: qui le lunghe e
doloranti teorie di schiavi romani hanno rimosso, in secoli di duro
lavoro, quegli enormi ciottoli rosastri che si notano ammucchiati sui
due greti del fiume Gorzente, l’antico Amporium dei latini. Qui, in
epoca più tarda, sono arrivati i Saraceni, attratti dallo stesso
miraggio: e poi i monaci, pii ed industriosi, del monastero di San
Salvatore di Pavia, autorizzati nel 712 a "lavare" l’oro dalle
sabbie miracolose con una donazione di Liutprando (riconfermata nel
1.121 da Callisto II, Papa) cui seguirono, all’estinguersi dell’ordine,
alessandrini, genovesi e persino quel milanese maresciallo Botta -
Adorno che fece di sé stesso una celebrità nel 1714 per aver dichiarato,
scatenando le ire e le sassate dei “Balilla”, che non avrebbe
lasciato ai genovesi altro che gli occhi per piangere.
Sempre sulle piste
dell’oro e risalendo nei secoli, ecco arrivare ditte inglesi e francesi,
spagnole ed americane, dedite tutte a traforare i monti con centinaia di
gallerie: l’Ottocento è l’epoca del vero "golden rush", della
corsa all’oro piemontese. La produzione annuale del “giallo
signore” di questa ristretta zona aumenta sino a 50 chili, ed
affluiscono capitali sempre nuovi, sempre nuove braccia che non esitano
di fronte alle fatiche sovraumane di bucare la montagna nei suoi recessi
più impervi.
Quando si trova un filone, i minatori accendono grandi
fuochi di gioia, e la ditta imprenditrice paga tre giornate di salario
in più. Ad ogni istante sembra di aver messo le mani sul "vero"
filone che farà del Piemonte la seconda edizione della California e del
Klondike, ma le speranze cadono ad una ad una con l’inizio del secolo
seguente:
le ditte falliscono in rapida successione e se ne vanno di furia,
abbandonando i costosi impianti trascinati con grandi sforzi sino lassù.
Nessuno si preoccupa delle vecchie gallerie abbandonate, nelle quali i
massicci tronchi imputridiscono lentamente. Ogni tanto si sente un cupo
rombo, e la terra freme leggermente: un braccio, una galleria intera
sono franati, distruggendo il lavoro da " talpe" degli uomini.
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La cartina
indica tutte le zone del Piemonte che hanno presentato nei secoli un
interesse aurifero. Attualmente (1965) si estrae oro soltanto da
Macugnaga, in piccole quantità e comunque con procedimenti industrializzati. |
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Col fascismo c’è
una ripresa. Delle miniere si interessa Italo Balbo, Campanelli, pare su
mandato dello stesso maresciallo: ma scambia volgare quarzite per oro,
come già successo ai minatori improvvisati di tutto il mondo. Si ostina
per un poco, poi pianta li tutto, disgustato. Con la seconda guerra
mondiale arrivano anche i tedeschi: silenziosi ed efficienti danno la
caccia ai partigiani, nascosti nelle "miniere degli antichi", come
le chiamano qui. Ma prelevano anche campioni di roccia, li analizzano,
ritornano, studiano e dopo la guerra, ogni tanto, capitano curiose
comitive di studenti di Monaco o Amburgo guidati dai loro professori di
mineralogia: questi scalano le balze rocciose come capre, scendono nelle
fratte e si
mettono in tasca campioni con bigliettini attaccati.
I montanari della
zona li osservano, scrutano sospettosi, sofferenti ogni volta del crudele
sospetto che vive in loro da quando sono nati, cioè che un giorno arriverà
qualcuno e si porterà via l’oro che dorme qui sotto da secoli,
inviolato. Ma ad arrivare, con idee fresche ed una esperienza nuova, è
stato un italiano, appunto Giovanni Aina, colui che non crede ai filoni,
alle pepite, al "colpo di fortuna". Ha sessanta anni, un volto cotto
dal sole e dalle esalazioni degli acidi: parla lentamente, con qualche
sforzo, ma si nota subito nelle sue parole una placida arguzia perché da uomo
ne ha viste tante. Prima dell’ultima guerra, quando capitò dalle
parti di Farini d’Olmo assieme ad un amico che, appunto, ricercava
minerali, gli si accese dentro un guizzo e comprese che quello era il
suo mestiere, andare in giro per le montagne deserte a cercare quegli
strani sassi lucenti, dalle meravigliose forme cristalline, che poi si
trasformano in rame, in zolfo, in calce, in argento.
Giovanni Aina aveva
evidentemente sentito
giusto, perché adesso è uno dei tre "coltivatori" di rame in Italia.
Ha ottenuto una grande concessione nelle montagne sopra Ferriere di
Piacenza (anche qui terreni già conosciuti sin dall’epoca romana) ed
ha cominciato a portare alla sua fabbrica camionate su camionate di
rocce. Prima le frantuma in pezzatura grossa, poi passa il materiale così
ottenuto in un immenso tamburo rotante di robustissimo acciaio caricato
con sessanta quintali di grosse palle di ferro, che macinano tutto
quanto; infine "flotta" la polverina che ottiene attraverso varie
vasche, nelle quali cade goccia a goccia, e per ognuna, un acido
diverso. E’ sorprendente osservare come sulla superficie liquida della
prima si formi una specie di schiuma scura che nelle successive diventa
sempre più chiara e luminosa: in quelle schiume, il rame si concentra
sempre più, finché nell’ultima ha un titolo del 19 o 20 per cento.
Quando Aina è arrivato a questo, fa seccare il materiale e lo vende
alle fonderie belghe, francesi e spagnole, a navi intere. Chi lo assiste
in queste operazioni sono i due suoi straordinari figlioli, Luciano, che
è il maggiore e Clara, chiamata la "chimica" della famiglia: mentre
Luciano, un ragazzo alto e allampanato corre su e giù per le montagne a
cercare campioni di minerali, Clara li prende con le sue mani delicate,
li sminuzza, li passa e ripassa nelle sue storte e provette per
titolarli, per vedere quale segreto rinchiudono. Dalle sue labbra pende
l’intera famiglia: dal responso che darà, dipende l’aver fatto o no
il "colpo grosso".
Questo “colpo
grosso” pare ci sia stato qualche settimana fa, quando Giovanni è
ritornato dalla zona di Lerma (AL) con
un paio di chili di campioni prelevati dopo due giorni di ricerche.
Clara ha compiuto con minuzia e maggiore attenzione del solito tutta la
complicata trafila delle sue operazioni e poi ha dato la grande notizia:
in quei campioni c’era all’incirca un grammo e mezzo di oro per
quintale, cioè almeno la metà in più di quanto si considera il limite
utile
economico di sfruttamento. Gli Aina non si sono messi a ballare di gioia
perché una lunga esperienza li ha abituati a non farsi illusioni e a
non correre con la fantasia, ma ne sentivano una gran voglia, tanto più
che avevano fatto le cose per bene: va notato infatti che invece di prelevare campioni
"ricchi", cioè delle zone sicuramente aurifere, avevano
intenzionalmente portato a
casa presunti prelievi poveri, in modo da esser sicuri che, comunque, il minimo
industriale fosse realmente tale.
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Il programma di
Giovanni Aina, a questo punto, è stato semplice: ha chiesto quello che
per l’antiquata legge mineraria italiana si chiama un "permesso di
ricerca". Appena lo avrà, eseguirà nella zona coperta dal permesso
saggi più abbondanti, estesi, e quindi, se Clara, china sui suoi
strumenti, dirà ancora una volta di sì, costruirà una strada di
accesso alla concessione e passerà al setaccio la montagna intera:
indifferente al percorso dei filoni, alle indicazioni lasciate dai
romani, saraceni ed inglesi, si baserà soltanto sul titolo minimo
complessivo dell’intera montagna. La sua persuasione è che in ogni
chilo di roccia, in ogni metro cubo di terra, ci sia un minimo di oro
allo stato diffuso. Coi suoi frantoi, con le vasche, egli lo tirerà
fuori. Si trova nella stessa situazione dello scienziato che pensa
all’oro contenuto nel mare: ve n'è 0,065 grammi per tonnellata
d’acqua e vi sono 1.367 milioni di chilometri cubi di oceani che
fasciano la terra.
Quanto a dire che il
mare custodisce circa 89 miliardi di tonnellate d’oro, che attendono
chi riesca a separarle con un metodo più redditizio di quello che
costa.
Ho chiesto ad Aina per
quale ragione un’idea così semplice fosse venuta a lui, e non ad una
grande industria, o agli stessi ricercatori che si sono succeduti nei
secoli. Mi è parso imbarazzato, come se stentasse ad attribuirsi
qualche merito, e poi mi ha detto: "vede, non è così facile come
sembra: intanto bisogna correre dei rischi, perché non è possibile
determinare prima quale sarà il costo complessivo di un ciclo completo
di estrazione e lavorazione. Poi bisogna avere le macchine: ogni
metallo, si può dire, esige un tipo di macchina diverso, e non ne
esistono in commercio. Bisogna fabbricarsele da sé , studiando ed
adattando: per questo, mio figlio è veramente in gamba. Pensa giorno e
notte a come può superare questa o quella difficoltà, e realizza la
macchina apposta. Infine bisogna avere le concessioni e dimostrare che
si intende fare un lavoro serio: tutte queste condizioni non si trovano
quasi mai riunite in una sola persona, e questa è la spiegazione". |
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Un’ora
in salita . |
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Siamo andati anche a
trovare l’oro, sopra i laghi artificiali della Lavagnina, in una delle
regioni più deserte del Piemonte: monti brulli, aguzzi, percorsi da un
vento teso che sale a impetuose folate dal mare di Liguria per
abbattersi nella vallata dell’Orba, come rovinando per una scabra
discesa. Ai laghi bisogna lasciare la macchina, traversare la cresta di
una diga potente e rassegnarsi ad imboccare un erto tratturo: dopo
un’ora di salita ansimante, si arriva alla zona delle gallerie, scure
ed umide nel fianco della montagna. Ancora mezz’ora e siamo sotto la
vetta: qui sotto i piedi c’è l’oro, c’è anche Berto Ferrando,
una figura di vecchio minatore balzato fuori digetto dalle pagine di
“Radiosa aurora” di London.
Ha settant’anni,
diritto, screpolato e sano come un fuso vecchio. Ride volentieri, e
quando lo fa, compare una doppia fila di denti che pochi quarantenni
possono vantare. Fa un freddo da cime alte, ma Berto indossa una
semplice canottiera, una camicia a scacchi di colore incerto, una
giacchetta di tela militare: è venuto verso di noi salendo dal basso
come un camoscio, senza alcuno sforzo. |
“Oro,
cari signori – risponde – qui ce n’è quanto si vuole, ma
non lo sanno cercare. Perché l’oro è come una strada: ci si cammina
sopra e dapprincipio si trovano poche case, poi sempre di più, e poi la
città ricca. Così è l’oro, bisogna non scoraggiarsi: io conosco
gallerie che sono arrivate a cinque, quattro, magari ad un solo metro
dal punto ricco, e invece si sono fermate li”. |
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“Allora,
perché non lo cerca e non lo trova lei, questo oro?”. |
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Il
filone è qui sotto. |
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Scrolla le
spalle: "Io sono povero, ci vuol materiali e denaro, pagare i permessi:
e poi salta fuori l’agente delle tasse. L’anno scorso un giornale
scrisse che un montanaro aveva indicato dove si trovava un filone: e
venne un professore, su dalla città, a gridare infuriato che era
proibito dare indicazioni e che ci avrebbe fatto arrestare tutti
quanti". |
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"In ogni modo lei sa
dove si trova, l’oro?" |
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Fa un gesto ampio:
“Vede, il filone comincia qui sotto, prosegue attraverso la montagna,
gira in quella valle, e poi va di là verso la Liguria: ma è come un
ramo d’albero, con tanti rametti secondari, tanti filoncini che
potrebbero dare bene”. |
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Ci accompagna alle
gallerie, buchi neri nel fianco della montagna, non più alte
all’imbocco delle spalle di un uomo. E quasi tutte di difficile
accesso: l’immaginazione crea subito in quella solitudine le teorie
degli schiavi che dovevano avvicendarsi come formiche lì dentro, per
portare alla luce le rocce gialle più ricche. Poi andiamo alla sua
baita a bere la limpida acqua di montagna: fa uno strano effetto sapere
che ogni bicchiere di quel liquido purissimo e freddo contiene un
milligrammo d’oro. Ma Berto lo sa, mi racconta dei suoi amici
montanari che costruivano le loro baite accanto ad uno dei mille
ruscelletti che scendono dal monte: ci mettevano dentro una strana
scaletta di legno a gradini rientranti e ogni tanto ritiravano la
minuta polverina d’oro che l'acqua vi lasciava (NOTA
DI ZG: più che la semplice e sola acqua, anche il terriccio che vi
scorreva insieme, immagino, dando così l'opportunità alla strana
scaletta
di lavare e trattenere l'oro). Ogni settimana o due
ne cavavano un bottiglino, e allora scendevano ad Ovada a venderlo.
“Ma ora – scuote la testa Berto – qui non c’è più nessuno. E io
invece vorrei che tornassero, come ai bei tempi. Perché qui l’oro
c’è, basta trovarlo”. |
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Guardo il monte: a
osservarlo bene, ora che l’occhio si è adattato, si nota qualcosa di
innaturale, come se le linee dei dossi fossero turbate, sconvolte. Berto
me lo spiega: secondo lui qui, "al tempo degli antichi" sorgeva
un'altra cresta, un altro monte. Ma se lo sono portato via tutto nei
secoli, sminuzzandolo, triturandolo, frugandolo alla ricerca dell’oro:
l’erba è ricresciuta in mezzo alle solitarie piante abbarbicate alle
pareti della montagna, ed ogni cosa, in questo alto silenzio, sembra
immemore e nuova. Eppure, dacché siamo quassù, in qualche modo siamo
cambiati: la magia sottile dell’oro ha preso anche noi, guardiamo
attentamente per terra, scendendo, facendo caso che non affiori
... una gialla,
lucente pepita. |
Franco Bandini
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Foto di Aldo Patellani |
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