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fronte sudest e altro

 

 

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Quarta ed ultima pagina della vasta relazione del dott. Pipino rivolta alla Bessa in generale, alla Serra d'Ivrea nel dettaglio e all'oro presente in detta area.

 

Altre testimonianze lungo il fronte sud-orientale dell’anfiteatro.

 

Dopo quelli di Villareggia, altri indizi di antiche coltivazioni riguardanti l'oro si trovano a sud-ovest di Moncrivello, sotto C.Bianchetti, su terrazzi quotati 270-280 interessati da limitate incisioni vallive con direzione NW-SE: si tratta di scavi circolari, con diametro di alcuni metri, e di limitati mucchi di ciottoli e ghiaie, rimaneggiati e di incerta origine, dai quali provengono certamente gli elementi serviti alla composizione dei numerosi muretti e dei canali irrigui della zona. Poco evidenti, e di incerta origine, sono anche le tracce di fosse e di cumuli di ciottoli che si trovano allo sbocco della Val Sorda in pianura, pure nel comune di Moncrivello, al confine con quello di Maglione, sotto il punto quotato 286, ma sono intersecati da piste di motocross e da diffuse discariche abusive che ne rendono difficile la lettura. Il toponimo "Moncrivello" potrebbe far pensare ad una etimologia legata all’atto si setacciare, ma l’attestazione più antica, del 1152, che alcuni leggono Montecrivellum, sembra essere, in realtà, Moncravellus.

Più evidente è la presenza di fosse circolari e di cumuli a metà della Val Sorda, la quale risulta ben terrazzata nonostante la relativa altezza del valico (Gola della Finestrella, q 312). Se ne vedono, in particolare, sui terrazzi quotati 300 m circa, nascosti da fitta boscaglia ed interessati, localmente, da ceppi di castagni secolari, specie sulla sponda destra; sulla sponda sinistra se ne intravedono nei boschi a nord di C. Tripolina. Tutta la zona è interessata da imponenti muraglioni di terrazzamento e da muretti confinari, fatti prevalentemente con grossi ciottoli arrotondati e, spesso, eccessivamente consistenti, evidentemente grazie all’abbondanza del materiale disponibile. I ciottoli sono anche stati usati abbondantemente per la fondazione, nel vecchio alveo, della strada che attraversa la valle appena a sud della zona di interesse. Non si notano estese canalizzazioni, pure tutta la zona è localmente chiamata Rian di Canal, nome probabilmente legato ad attività non molto antiche risalenti ai tempi in cui la valle, oggi completamente asciutta, era ancora interessata da scorrimento d’acqua, ed è interessante notare che nel 1662 il conte Francesco Valperga, nel far “consegnamento” dei suoi feudi di Valperga, Cuorgné, Camagna, Val Soana, Sparone, Pont, Locana, ecc., aggiunge la sua parte del distrutto castello di Maglione con beni e diritti vari, tra i quali “miniere, minerali e ogni e qualunque e altra pertinenza …in detto territorio di Maglione” (Arch. St. Torino): si tratta ovviamente di una formula generica, ma è curioso che essa riguardi soltanto Maglione, nel cui territorio non è segnalato alcun tipo di attività estrattiva e nel quale si può soltanto ipotizzare la raccolta dell’oro alluvionale.

Dalle evidenze topografiche risulta che il corso d’acqua della Val Sorda, giunto nella piana ad est di Moncrivello, deviava ad oriente e scorreva, a nord di Cigliano, fin nella zona compresa fra Brianzé e Livorno Ferraris, dove ancora nel Settecento è ricordata la presenza di “Paludine” (DURANDI 1764). Nella zona, secondo osservazioni recenti, scorre ancora, a pochi metri di profondità, un corso d’acqua sotterraneo identificato, dalle popolazioni locali, con un leggendario fiume "Lino".

Proseguendo lungo il bordo dell’anfiteatro, si trovano subito le testimonianze di antichi lavaggi già segnalate da Vallino nel 1763: “…costeggiando al piede delle dolci colline, tra il luogo di Moncrivello ed il Borgo d’Allice,…ivi il terreno di nuovo si trova aurifero, e si vedono le vestiggia di radicate estese antiche lavature, fondandomi sugli abbissi e su i moltissimi cumuli di sassi che tutt’ora si vedono”. Nello schizzo topografico allegato alla relazione i resti sono ubicati, grossolanamente, sopra "Borgo d’Ales": la toponomastica e l’osservazione delle carte topografiche mi hanno aiutato a rintracciare quanto ne resta. Infatti, nella pianura a sud-ovest di Borgo d’Ale si trovano due collinette isolate, denominate Boscotagliato (q 265 c) e Busasse (q 261), fra le quali se ne interpongono altre di minori dimensioni: per la carta geologica si tratterebbe di lembi isolati di sedimenti fluvioglaciali del Mindel. I rilievi di minori dimensioni oggi non sono più apprezzabili e quello più esteso, Busasse, che nelle carte si estende fino a lambire la strada per Maglione, in tempi recenti è stato interessato, nella parte settentrionale, dallo scavo di una cava di sabbia che ne ha obliterato una buona fetta. La cava, che forse in origine era sorta per la frantumazione dei ciottoli affioranti, si estende oggi in profondità per oltre dieci metri e interessa una sequela di sabbie e ghiaie poco stratificate, senza incontrare il livello freatico: lungo la recinzione esterna sono posizionati grossi massi di serpentiniti e di micascisti, resti evidenti dei primitivi affioramenti. In quello che resta di questi, che si estendono ancora per qualche centinaio di metri quadrati, e nei non lontani resti di Boscotagliato, di analoga estensione, sono ben riconoscibili fosse rotonde, del diametro di parecchi metri, e piccoli cumuli, elevati di uno-due metri, che, quando scoperti dal fogliame, risultano costituiti da mucchi di ghiaie e ciottoli arrotondati, ben lavati, con diametro variabile da pochi centimetri a 30; la composizione è quella solita, con buona percentuale di ciottoli di quarzo di tipo Brusson, di piccole e medie dimensioni. Di tanto in tanto emergono grossi massi di serpentiniti e di micascisti, a bordi irregolari e lunghi fino a due metri.

Questi sicuri resti di antiche coltivazioni aurifere sono separati dalle colline moreniche dal canale di Villareggia che le costeggia e che, in gran parte, è stato costruito utilizzando sassi sciolti prelevati dai cumuli: la costruzione, assieme alle intense bonifiche agrarie, ha sicuramente determinato il ridimensionamento e l’isolamento delle testimonianze. La formazione degli originari terrazzi fluvioglaciali, in questa zona, sembra dovuta ad una originaria fiumara che fuoriusciva dal bacino della Val Sorda attraverso la profonda incisione che ne interessa il fianco sinistro, nella periferia sud-orientale di Maglione, e nella quale è impostata la strada per Borgo d’Ale.

Poco a nord delle Busasse, le evidenze topografiche e la toponomastica fanno sospettare l’antica presenza di altri resti. Piccoli cumuli di ciottoli si vedono all’incrocio di stradine poderali, quotato 260, nella parte meridionale della località Mondoni, ma sono visibilmente rimaneggiati e circoscritti da bonifiche agrarie. Anche in questo caso, il terrazzamento originario potrebbe essere dovuta ad una fiumara proveniente dal bacino della Val Sorda, attraverso un altro taglio del fianco sinistro, a sud di C. Tripolina.

Il successivo affioramento si colloca invece allo sbocco dell’ampia vallata di Areglio, in località Bose, circa duecento metri a nord dell’antica chiesetta omonima, appena al di là del canale di Villareggia: esso interessa un bosco di circa 2-3 ettari, intersecato da strade più o meno importanti e da canali rivestiti da ciottoloni a secco, e sembra corrispondere a quello indicato col n. 11 nello schizzo topografico del tenente Vallino. Il bosco è impenetrabile, ma ai suoi margini sono talora ben evidenti i soliti mucchi di ciottoli sciolti.

La vallata di Areglio prende il nome dal piccolo centro indicato, nell’Alto Medioevo, col nome di Arelium, nome per il quale non si ha alcuna indicazione etimologica e che potrebbe derivare dal latino Aurelium per caduta della u, cosa non insolita: come per il nome proprio, esso potrebbe quindi derivare dal nostro aurum. In effetti, resti di possibili antiche coltivazioni aurifere si intravedono in entrambi i rami che si sviluppano ai lati del Bric del Monte, lungo i quali, nell’Alto Medioevo, si trovavano i centri di Erbario (ad ovest) e di Meolio (ad est), i cui abitanti, assieme a quelli di Arelio e di altri della pianura, nel 1270 andarono ad edificare il borgo franco di Alice (Borgo d’Ale).

Il territorio di Erbario (oggi Arbaro) è caratterizzato dalla presenza di estese piane coltivate, frutto evidente di secoli di bonifiche che possono aver obliterato eventuali resti di antiche coltivazioni minerarie. Tuttavia, i ruderi della chiesa romanica di San Dalmazzo, che si trova al centro dell’area ed è riportata, ma non nominata, nella tavoletta IGM, poggiano visibilmente su un cumulo di grossi ciottoli, alto un metro e mezzo circa, il quale si estende per qualche metro oltre il lato meridionale dell’edificio. Questo è fatto di grossi ciottoli arrotondati, legati con malta magra, e presenta tipici motivi decorativi a "spina di pesce", ottenuti con ciottoli appiattiti. Fra il cumulo e la collina passa un lungo canale rivestito di ciottoli, mentre dall’altra parte, oltre la strada che costeggia la chiesa e si dirige verso il ripetitore posizionato sul Bric del Monte, si sviluppa un discreto cordone di grossi ciottoli sciolti, visibilmente eliminati dai due campi adiacenti, molto puliti. Cordoni e mucchi isolati di ciottoli si vedono anche, saltuariamente, nel bosco che borda le falde occidentali del bricco.

Più estese ed evidenti sono le possibili testimonianze dall’altra parte del Bric del Monte, a partire dai terrazzi quotati 350 circa che si sviluppano nella stretta incisione valliva che trae origine dal fianco orientale del Bric Camolesa. Estesi cumuli di grossi ciottoli sciolti, isolati o raggruppati, affiorano nei boschi, in particolare nel versante sinistro della valle, e tutt’intorno si vedono recinti, delimitazioni confinarie ed imponenti terrazzamenti fatti di ciottoli sciolti. Se ne trovano ancora, di cumuli di ciottoli, almeno tre fila nella continuazione dei terrazzi sul versante destro della vallecola che scende dal valico del Sapel de Bras e, poi, nei terrazzi più bassi, a quota 330 circa, lungo la strada che porta al santuario di S. Maria della Cella, specie sul lato occidentale. Più a valle, nella fitta boscaglia interposta fra il Bric del Monte e le colline della Marmarola (zona di Meolio), si notano invece serie di scavi circolari, spesso accompagnati da piccoli cumuli di ciottoli, etero-dimensionali e ben lavati: se ne vedono, in particolare, all’inizio della "pista tagliafuoco" di Meolio, alle spalle dell’edicola votiva, e a poche decine di metri dalla chiesetta di San Bernardo, a nord-nord-ovest e a sud-ovest dei ruderi dell’edificio, dietro il maneggio.

Proseguendo lungo il margine dell’anfiteatro, evidenze di scavi circolari e piccoli mucchi di ghiaie e ciottoli si riconoscono su un terrazzino quotato 315-320 lungo la piccola incisione che scende in direzione sud-est dal Bric Mezzacosta (q 388) e, con maggiore evidenza, nella vicina zona del Passo d’Avenco (q 322). Lungo la piccola incisione, che ha origine al passo, si notano già discreti mucchi di ciottoli arrotondati che non sembra possano essere stati originati dal modesto ruscellamento: la valle, oggi asciutta, va poi allargandosi in direzione nord-est e al suo centro si colloca la C.na Vigna, continua poi in direzione est e, assieme ad altre, va a costituire la grande Valle Dora, ovvero la valle della Dora Morta. Scavi circolari, con modesti mucchi, sono evidenti nella parte iniziale della vallecola, a sud-sud-ovest della cascina Vigna, nel terrazzo quotato 280 che si sviluppa nel versante destro ed è interrotto dall’antica strada per il Passo d’Avenco, oggi affiancata dall’autostrada.

Le successive testimonianze si trovano presso il Sapel de Mur, alle origini della Dora Morta, lungo il confine fra i territori comunali di Alice e Cavaglià. La paleo-valle s’incunea fra il Bric della Vigna e il M. Magnano e, dalle evidenze topografiche, parrebbe che in passato sia stata in diretto contatto con il Lago di Viverone, nonostante l’altezza dell’odierno passo, o Sapel (294). In particolare, alle falde meridionali del M. Magnano, a valle della strada per C. Rondolino, le testimonianze interessano una superficie di circa 5 ettari sul terrazzo quotato 280-290: si tratta di molte buche con diametro anche superiore ai 20 metri, talora profonde ancora fino a 10 metri, con a lato cumuli di ciottoli grossi e piccoli che, quando scoperti dalle foglie, risultano ben lavati e privi di sabbia.

Limitate evidenze si notano anche alle falde orientali del M. Magnano, lungo la stretta incisione che lo separa dal Montemaggiore e va in qualche modo a confluire nella Dora Morta nella piana a sud di S. Vito: sono costituite da poche fosse rimaneggiate che appaiono in particolare sul terrazzo quotato 285-290 sulla destra della valle, a sud-est dei ruderi di C. Torana. Da notare che alle origini di questa paleo-valletta si trova, a sud di C. Lovisso, un ampio stagno, con livello 290 circa, che le evidenze topografiche mettono in relazione col Lago di Viverone, la cui superficie raggiunge, oggi, appena 230 m. La valletta e la piana in cui sbocca sono interessate da imponenti murature e terrazzamenti, di varia epoca, per i quali possono essere stati utilizzati i ciottoli di eventuali cumuli. Inoltre, nei campi di C. Rondolino vengono spesso alla luce, durante le arature, frammenti di laterizi romani.

Per la zona sono storicamente segnalate antiche attività minerarie. DURANDI (1764) vede nella Dora Morta un antico canale estratto dalla Dora Baltea (all’interno dell’Anfiteatro) e, considerato che le acque non potevano essere portate nella zona della Bessa, ritiene che le miniere dei Salassi vanno cercate ai piedi delle colline interessate dal canale, dove, appunto, “…parecchie profonde escavazioni per entro le viscere di alcune di quelle colline vi si veggono tuttavia, e specialmente nel sito su i confini di Alice e Cavaglià, appellato di Torano”. Rondolino (1882), prevenuto contro Durandi anche in altre occasioni, scrive in proposito: "....escludiamo anzitutto l’opinione del Durandi....che esistessero miniere aurifere nei colli di Cavaglià....non si hanno indizi di cave minerarie ne’ dintorni di Cavaglià, cercandovisi indarno i lavori che s’incontrano nella Bessa, con i quali non vanno scambiati i cavi che s’incontrano in Torana e Sapello da Muro, i quali sono semplici cavi della sabbia condottavi altra volta dal letto di Dora Morta e inserviente tuttodì ad opere di muratura". Non nega, quindi, la presenza di antichi scavi, ma non vi riconosce somiglianze con i cumuli della Bessa e ritiene si tratti di cave di sabbia: a parte il fatto che a metà Settecento non doveva poi esserci grande richiesta di sabbia, gli scavi indicati da Durandi, confermati da Rondolino e da me verificati, non si trovano nel letto della Dora Morta, ma nei terrazzi laterali, ciottolosi. Ai tempi di Rondolino la sabbia veniva in effetti cavata nell’alveo asciutto, sabbioso, e lo è ancora, in maniera più massiccia.

Anche l’ampia vallata della Dora Morta sembra essere stata abbandonata dalle acque di scorrimento superficiale in tempi non molto antichi. Nelle cave di sabbia, che si spingono fino a raggiungere il livello freatico, a profondità di circa 30 metri, è ben evidente una successione di sabbie e ghiaie fresche, talora intervallate da sottili strati argillosi, e le osservazioni da me eseguite in alcuni impianti, nei territori di Cavaglià e di Santhià, hanno evidenziato la presenza di discreti quantitativi d’oro, in polvere finissima, più abbondante, nei concentrati, di quello della Dora Baltea (PIPINO 1982, 1984).

Possibili testimonianze di antiche attività minerarie si possono cogliere, ancora, nella periferia nord-occidentale di Cavaglià, a est di C.na Strà, sul fianco sinistro della piccola paleovalle che proviene, con direzione sud-est, dal valico fra le colline di C. Moriundo e C. Moriondo, a quota 280 circa: si tratta di una o due fosse al massimo, ma è da notare che la zona, oggetto di secolare attività agricola, è da qualche tempo oggetto di intensa urbanizzazione, con probabile utilizzo dei sassi sciolti residui. Restano, tuttavia, numerosi massi isolati, anche di notevole dimensione, probabili residui del lavaggio (o del dilavamento) di sedimenti alluvionali fluvioglaciali.

 

L’oro della bassa pianura e la corte Auriola.

 

Come notato da GABERT (1962), dal fronte meridionale dell’Anfiteatro Morenico al Po si ha una serie di terrazzi fluvioglaciali che, stranamente, sono stati ignorati da tutti gli studiosi precedenti, probabilmente a causa delle difficoltà di datazione dovute al loro scarso dislivello e alla complessità della copertura alluvionale. Egli vi distingue, schematicamente, due gruppi di terrazzi: 1) quelli che nascono ai piedi del fronte morenico e costituiscono la piana propriamente detta, 2) quelli, più recenti, che s’incastrano nei precedenti lungo la valle della Dora Baltea e si prolungano fino a monte del fronte morenico, pur non dipendendo da questo.

Per quanto riguarda i primi, evidenzia il fatto che l’impressione generale di un semplice raccordo alle morene, secondo lo schematico cono di transizione descritto da Peck, si scontra con le osservazioni di dettaglio che mettono in evidenza stadi diversi, in rapporti poco chiari tra di loro e con i diversi episodi glaciali. In particolare, la piana di Santhià s’incastrerebbe in un “…episodio d’accumulo antico, con un livello di ferretto”, e sarebbe bordata, a monte, da resti di morena del Quaternario medio, quali quelli di Moncrivello, Maglione, Alice Castello e Cavaglià: essa è interessata da incisioni poco profonde, come quella detta "la Valle”" (Dora Morta), e come le due che si sviluppano a monte di Borgo d’Ale, provenienti dalle morene di Albaro-Areglio. La prima interesserebbe una nappa ghiaiosa, sottile e fresca, derivata dal dilavamento di depositi più antichi, come starebbe a dimostrare, fra l’altro, l’estrema abbondanza di quarzo (fino al 50%), abbondanza che si può spiegare soltanto col rimaneggiamento di pre-esistenti depositi rissiani, nei quali il quarzo abbonda.

Interessanti sono, poi, le osservazioni che l’Autore fa sul bordo meridionale del “cono della Dora”, dove individua “terrazze antiche sull’anticlinale Trino-Montarolo”. Si tratta della piccola collina chiamata "la Costa", costituita da un dosso strutturale con nucleo di calcare marnoso tortoniano, coperto da ghiaie e argille quaternarie, la quale rappresenterebbe un’anticlinale terziaria legata ai movimenti che caratterizzano le contigue colline del Monferrato, dall’altra parte del Po. Il movimento sarebbe avvenuto in tempi piuttosto recenti e, comunque, dopo che il Po era già stato spinto a sud dell’area interessata.

Sulla superficie della collina l’Autore riconosce due terrazzi, con dislivello di circa 20 metri (182 e 160), ricoperti da sedimenti alluvionali quaternari antichi, probabilmente dell’interglaciale Mindel-Riss per quanto riguarda il terrazzo alto, nella parte occidentale, quaternari medi (rissiani) per quanto riguarda il terrazzo inferiore, nella parte orientale della collina. I primi sarebbero costituiti essenzialmente da argille rosse, di tipo ferretto, contenenti piccoli ciottoli di quarzo cariato, i secondi da livelli di ghiaie a stratificazione incrociata, di tipo torrenziale, a matrice sabbiosa ricca di quarzo.

Per quanto detto, appare evidente che la bassa piana vercellese ha subito una complicata evoluzione e che l’attuale sistemazione del territorio, a risaie irrigate da un numero infinito di canali, ne rende difficile la lettura. Non è però possibile convenire con l’Autore citato, e con altri, quando affermano che, in questa zona, il Po sia stato spinto a sud soltanto dalle alluvioni della Dora Baltea, in quanto un ruolo fondamentale debbono aver avuto altri corsi d’acqua oggi non più attivi, quali quelli della Val Sorda, di Areglio e della Dora Morta. Ed è a questi, oltre che ad originari depositi abbandonati dal del Po nel suo lento spostamento a sud, che va attribuita la diffusa presenza dell’oro in questa parte della pianura vercellese, presenza da me evidenziata indagando nelle cave di sabbia che vi operano (PIPINO 1984).

Le indagini compiute nelle cave lungo l’antico letto della Dora Morta, nei territori di Cavaglià e di Santhià, hanno evidenziato la discreta presenza di oro finissimo, generalmente più abbondante nelle cave più montane: meno diffusa, ma comunque consistente, è la presenza nella cava di Livorno Ferraris, lontana da paleo-alvei visibili. Sporadiche presenze sono state riscontrate anche nelle rogge della zona, indagate alla ricerca della mitica Auriola, in particolare in quelle indicate con gli storici nomi di Acqua Negra, Lamporasso, Lamporo, Magretti, Stura, oltre che in alcuni canali recenti. Si tratta sempre di poche scagliette di dimensioni sub-millimetriche, ma non sono da escludere possibili arricchimenti, in strati specifici o in locali concentrazioni per dilavamento. E, infatti, ho trovato uno di questi proprio nella zona più indiziata storicamente: si tratta di un fosso, generalmente asciutto ma molto attivo in periodi di precipitazioni, nel quale la presenza diventa consistente, anche in scagliette superiori al millimetro. Il fosso taglia il versante meridionale della collina Montarolo-Costa e si sviluppa in direzione sud-est ad occidente del C.lo Diana: interessa livelli di sabbie ghiaie piuttosto fresche, ricche di quarzo nelle due solite varietà (bianco latteo cariato e madreperlaceo tipo Brusson), livelli che GABERT (1962) attribuisce al Quaternario medio.

È interessante notare che tutte le rogge della zona scorrono in direzione est, parallelamente al corso del Po del quale, probabilmente, hanno occupato l’alveo man mano abbandonato, per cui è difficile stabilire se le antiche alluvioni aurifere intersecate siano dovute al Po o agli apporti dei corsi d’acqua provenienti dall’anfiteatro morenico:in ogni caso, una possibile convivenza sembra possa essere possibile soltanto nelle parti più settentrionali. L’insolito andamento delle rogge, d’altra parte, può essere stato condizionato dal sollevamento della collina Montarolo-Costa che assume, appunto, un allungamento in direzione Ovest-Est.

Discrete concentrazioni d’oro si hanno ancora lungo l’attuale corso del Po, da Cresentino a Casale, ma, in questo caso, l’origine del metallo va prevalentemente attribuita al trasporto superficiale degli apporti di Orco, Dora Baltea e Sesia.

 

Altre note storiche.

Il Po è il primo dei fiumi citato nella lista di quelli in cui, nell’alto Medioevo, si raccoglieva l’oro che, per giuramento, doveva essere venduto alla Regia Camera di Pavia, ed è plausibile supporre che ci si riferisse soprattutto al tratto compreso fra la confluenza dell’Orco, e più ancora di quella della Dora Baltea, fino alla confluenza del Ticino, tratto che è sempre stato il più ricco e frequentato dai cercatori. Per quanto riguarda la Sesia, pure riportata nella lista, dobbiamo ritenere che ci si riferisse al basso corso, a valle della confluenza dei torrenti Elvo e Cervo, citati a parte.

Nel documento vengono riportati, dopo la Sesia e prima dell’Orco, Stura e Stura minore, generalmente identificate con la Stura di Demonte e con la Stura di Lanzo: ora, dato il contesto del documento è più probabile che esse vadano identificate con i due rami della Stura di Lanzo, ma non è escluso che la “Sturaminore” possa essere l’omonima roggia di Trino che, in antico, doveva essere molto più ricca di quanto oggi non sia. In questa zona, re ed imperatori barbari possedevano una corte dal significativo nome di Auriola, con “palazzo regio” nel quale, nel corso del IX secolo, furono firmati alcuni diplomi, da Lotario I e da Ludovico II. Nel 933 Ugo e Lotario donarono, al conte Aleramo, la corte Auriola, sita “…tra i due fiumi Amporio e Stura”, con tutti i diritti, tra i quali non è esplicitamente ricordata la raccolta dell’oro. Tuttavia il nome della corte fu messo in relazione a tale raccolta da DURANDI (1774) che, con una forzatura (PIPINO 1989), la posizionò nella contea di Acqui ed identificò i due fiumi con il Piota e con la Stura di Ovada e, quindi, Auriola con Valloria. In un’opera successiva (1804), pur non nominando esplicitamente la corte, la ricollocò giustamente nel vercellese ed identificò i due fiumi con il Lamporo e con la Stura di Trino.

Storici recenti (MERLONE 1992,etc.) identificano il centro demico della corte con l’odierna tenuta Darola, pur riconoscendo che questa si trova fuori dai limiti indicati, a nord del Lamporo: le argomentazioni si basano, come al solito, su vari "sì, ma, però," tendenti a stravolgere i dati precisi del documento e a farli coincidere con le proprie tesi. La corte Auriola è esattamente delimitata dalle due rogge, almeno per quello che riguarda i confini settentrionale e meridionale, si estende da nord-ovest a nord di Trino e comprende l’intera collina Montarolo-Costa, cosa che giustifica la specifica citazione di “…montibus et vallis”; nel 1014 è indicata come corte Oriola, e il monastero di Fruttaria vi possiede beni ricevuti in dono dagli aleramici. Il centro demico va collocato nell’odierna C.na dei Frati, sita nella parte terminale sud-orientale della collina e adiacente al Can.le S. Martrino che ricorda la chiesa omonima scomparsa in tempi recenti: una chiesa di San Martino risulta, infatti, costruita da Aleramo pochi anni dopo la donazione della corte, e documenti successivi, pubblicati da ORDANO (1976), la collocano in Cortorolo o Cortarola, evidente contrazione di CorteOriola, divenuta poi Cascina San Martino dei Frati.

Dall’altra parte della collina, nel 1147 l’Abbazia di S. Maria di Lucedio, ormai proprietaria di buona parte del territorio, possedeva un bosco in “…curie montis Orioli” (PANERO 1979): il nome della località, chiaramente derivato da quello della corte, se non direttamente dalla presenza dell’oro, in tempi successivi andò modificandosi in Montorolium, Montarolium, Montarolo.

Alla fine del primo millennio il diritto sulla raccolta dell’oro, nel territorio vercellese, passò dall’imperatore alla chiesa vescovile di Sant Eusebio di Vercelli: nel confermare alla chiesa tutti i possessi e diritti, infatti, il 1° Novembre dell’anno 1000 Ottone III le dona e conferma, in perpetuo, “…tutto l’oro che si trova e si lavora nell’episcopato e nel comitato vercellese, nel comitato di Sant’Agata (Santhià), e nelle pertinenze di San Michele di Lucedio e in tutte le terre pertinenti all’episcopato e al comitato vercellese". Vogliamo, quindi, che i soliti redditi dell’oro, che prima competevano alla nostra camera, da oggi in poi passino in eterno alla camera di Sant’Eusebio, affinché la nostra memoria non sia dimenticata e con quell’oro acquisiamo vita eterna”. Il documento è sospetto di falsità, ma ne esiste una copia autentica del secolo successivo, per cui è certo l’interesse della chiesa vercellese in quel periodo, e non soltanto per l’oro che si raccoglieva nei fiumi Elvo, Cervo, Sesia e Po vercellese: la specifica citazione alla zona di competenza del monastero di San Michele di Lucedio dimostra che oro si raccoglieva anche nella bassa pianura a ovest del Comune.

Nonostante le pretese di Vercelli, l’abbazia di Lucedio continuò a rivendicare il diritto sulla raccolta dell’oro in alcune zone, scontrandosi con i feudatari e con le nuove realtà comunali. Agli inizi del Trecento il monastero, che vantava l’antico possesso della grangia di Gaiano, nella corte di Cornale, era in lite con Tommaso Scarampi, feudatario di Camino, il quale vantava diritti sulle ghiaie del Po, e sull’oro contenuto, anche nel territorio di Cornale, parte del feudo: il 24 febbraio 1332 si giunse ad un compromesso, favorevole al feudatario, ma in seguito egli dovette difendere il suo diritto dalle pretese della comunità di Camino (SISTO 1963).

In epoche più recenti sono le comunità a spuntarla. Nel 1666 il comune di Fontanetto Po affitta, a Martino Santoro, “…la giara del Ronzato osiadagli Arbori vicina al fiume Po, per farvi la pesca dell’oro”, e nel 1729 risulta ricavare 40 lire per l’affitto della ricerca dell’oro nel suo territorio (BUSNENGO 1987); dal 1698 al 1792 il Comune di Vercelli, come risulta dai suoi registri, affittava la “pesca dell’oro” nel fiume Sesia per un canone annuo variabile da 15 a 40 lire (PIPINO 2010). Nel 1822 sono invece le Regie Finanze ad affittare, ad Andrea e Antonio Ottino, la pesca dell’oro nei fiumi Po e Dora in comune di Verrua, per tre anni rinnovabili, al canone annuo di lire 35 (Arch. Museo Storico Oro Italiano).

La raccolta, probabilmente mai cessata completamente, riprese dopo la liberalizzazione del 1840 e, dal 1844 al 1857, furono venduti, alla Zecca di Torino, Kg 7,400 di “oro di pesca” del Po e poco più di 5 chili provenienti dal fiume Sesia, oltre a 19,300 chili provenienti dalla Dora Baltea e 16,600 chili provenienti dall’Orco (DESPINE 1858).

Come detto, nella Sesia la raccolta era praticata soltanto a valle della confluenza dei torrenti Elvo e Cervo, e ne abbiamo precise testimonianze: JERVIS (1873) ci dice della presenza di “…oro nativo in pagliuzze…sotto l’influenza del Cervo”; MARCO (1932,1940) racconta che da decenni un cercatore operava nei pressi di Vercelli, a monte del ponte ferroviario,e pubblica la foto dello stesso cercatore all’opera; MONACO (1903) riferisce che nei pressi di Palestro si lavorava sulle due sponde del fiume e si otteneva un grammo e mezzo di “oro in pagliuzze” con il lavaggio di 38 carriole da 40 chili di sabbia. É ovviamente un caso, o forse no, che proprio sulle sponde della Sesia di Palestro furono trovate monete d’oro cimbriche, alcune delle quali conservate al Museo Leone di Vercelli.

Per il Po abbiamo maggiori testimonianze. BARELLI (1835) segnala una specifica concessione di raccolta in territorio di Verrua, ma è ovvio che ne esistevano anche in altre zone: dal 1844 al 1857, come abbiamo visto, furono venduti, alla Zecca di Torino, Kg 7,400 di oro raccolto nel fiume. JERVIS (1881 e 1874) segnala la presenza, e la raccolta, di “pagliuzze di oro nativo”, in riva sinistra del Po, nei territori comunali di Crescentino, Fontaneto Po, Palazzolo Vercellese, Camino, Pontestura, Coniolo, Casale, e in riva destra, nei territori comunali di Verrua Savoia, Moncestino, Gabiano, Castel San Pietro, Casale. Dopo Casale Monferrato, presenza e raccolta continuano, secondo l’Autore citato, in sponda sinistra del Po, nei territori comunali di Sartirana Lomellina, Suardi, Cairo, Pieve del Cairo, e in sponda destra, nei territori comunali di Frassineto, Valmacca, Bozzole, Valenza e Valmacca. Della ricerca dell’oro nel Po, nella prima metà del Novecento, parlano numerosi giornali locali del tempo e, in alcune zone del fiume, la raccolta è proseguita, anche se saltuariamente, fino ai primi anni ’50 del secolo scorso, fintanto che l’alto prezzo del metallo, rispetto al costo del lavoro, garantiva un certo guadagno anche con un minimo prodotto giornaliero (PIPINO 1987).

                                                                                           Giuseppe Pipino

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