L'episodio
qui descritto costituisce la parte conclusiva di un racconto della
raccolta Il sistema periodico, di Primo Levi (Einaudi editore),
dove si accenna all'oro presente nel fiume Dora; tutta l'ampia parte
narrativa posta invece a monte di questo paragrafo è stata qui omessa
perché tratta altri argomenti.
Materiale gentilmente inviatomi da Pollicino.
Oro
...Faceva molto freddo. Bussai alla
porta finché venne il milite che fungeva da sbirro, e lo pregai di
mettermi a rapporto con Fossa; lo sbirro era proprio quello che mi aveva
picchiato al momento della cattura, ma quando aveva saputo che io ero un
«dottore» mi aveva chiesto scusa: l’Italia è uno strano paese. Non mi
mise a rapporto, ma ottenne per me e per gli altri una coperta, e il
permesso di riscaldarci per mezz’ora ogni sera, prima del silenzio,
vicino alla caldaia del termosifone. Il nuovo regime ebbe inizio la sera
stessa. Venne il milite a prelevarmi, e non era solo: con lui c’era un
altro prigioniero di cui non conoscevo l’esistenza. Peccato: se fosse
stato Guido o Aldo sarebbe stato molto meglio: comunque, era un essere
umano con cui scambiare parola. Ci condusse nel locale caldaia, che era
fosco di fuliggine, schiacciato dal soffitto basso, ingombrato quasi per
intero dalla caldaia, ma caldo: un sollievo. Il milite ci fece sedere su
una panca, e prese posto lui stesso su una sedia nel vano della porta, in
modo da ostruirla: teneva il mitra verticale fra le ginocchia, tuttavia pochi minuti dopo già sonnecchiava e si disinteressava
di noi. Il prigioniero mi guardava con curiosità: - Siete voi, ribelli?
– mi chiese, Aveva forse trentacinque anni, era magro e un po’ curvo,
aveva i capelli crespi in disordine, la barba mal rasa, un grosso naso a
becco. La bocca senza labbra e gli occhi fuggitivi. Le sue mani erano
sproporzionatamente grosse, nodose, come cotte dal sole e dal vento, e non
le teneva mai ferme: ora si grattava, ora le strofinava una sull’altra
come se le lavasse, ora tamburellava sulla panca o su una coscia; notai
che gli tremavano leggermente. Il suo fiato odorava di vino, e ne dedussi
che era stato arrestato da poco; aveva l’accento della valle, ma non
sembrava un contadino. Gli risposi tenendomi sul generico, ma non si
scoraggiò: - Tanto quello dorme: puoi parlare, se vuoi. Io posso fare
uscire notizie; poi forse esco fra poco.
Non
mi sembrava un tipo da fidarsene molto.
- Perché sei qui? - gli
chiesi?
- Contrabbando: non ho
voluto spartire con loro, ecco tutto. Finiremo col metterci d’accordo,
ma intanto mi tengono dentro: è male, col mio mestiere.
- E’ male per tutti i
mestieri!
- Ma io ho un mestiere
speciale. Faccio anche il contrabbando, ma solo d’inverno, quando la
Dora gela; insomma, faccio diversi lavori, ma nessuno sotto padrone. Noi
siamo gente libera: era così anche mio padre e mio nonno e tutti i
bisnonni fino dal principio dei tempi, fino da quando sono venuti i
Romani.
Non avevo capito
l’accenno alla Dora gelata, e gliene chiesi conto: era forse un
pescatore?
- Sai perché si chiama
Dora? – mi rispose: - Perché è d’oro. Non tutta, si capisce, ma
porta oro, e quando gela non si può più cavarlo.
- C’è oro sul fondo?
- Si, nella sabbia: non
dappertutto, ma in molti tratti. E’ l’acqua che lo trascina giù dalla
montagna, e lo accumula a capriccio, in un’ansa sì, in un’altra
niente. La nostra ansa, che ce la passiamo di padre in figlio, è la più
ricca di tutte: è ben nascosta, molto fuori mano, ma ugualmente è meglio
andarci di notte, che non venga nessuno a curiosare. Per questo, quando
gela forte come per esempio l’anno scorso, non si può lavorare, perché
appena hai forato il ghiaccio se ne forma dell’altro, e poi anche le
mani non resistono. Se io fossi al tuo posto e tu al mio, parola
d’onore, ti spiegherei anche dov’è, il nostro posto. Mi sentii ferito da quella
sua frase. Sapevo bene come stavano le mie cose, ma mi spiaceva sentirmelo
dire da un estraneo. L’altro che si era accorto della topica, cercò
goffamente di rimediare:
- Volevo dire insomma che
sono cose riservate, che non si dicono nemmeno agli amici. Io vivo di
questo, e non ho altro al mondo, ma non cambierei con un banchiere. Vedi,
non è che d’oro ce ne sia tanto: ce n’è anzi molto poco, si lava
tutta una notte e si tira fuori uno o due grammi: ma non finisce mai. Ci
torni quando vuoi, la notte dopo o dopo un mese, secondo che ne hai volontà,
e l’oro è ricresciuto; è così da sempre e per sempre, come l’erba
nei prati. E così non c’è gente più libera di noi: ecco perché mi
sento venire matto a stare qui dentro. Poi, devi capire che a
lavare sabbia non sono capaci tutti, e questo dà soddisfazione. A me,
appunto, mi ha insegnato mio padre: solo a me, perché ero il più svelto;
gli altri fratelli lavorano alla fabbrica. E solo a me ha lasciato la
scodella, - e, con la enorme destra leggermente inflessa a coppa, accennò
al movimento rotatorio professionale.
- Non tutti i giorni sono
buoni: va meglio quando c’è sereno ed è l’ultimo quarto. Non saprei
dirti perché, ma è proprio così, caso mai ti venisse in mente di
provare.
Apprezzai in silenzio
l’augurio. Certo, che avrei provato: che cosa non avrei provato? In quei
giorni, in cui attendevo abbastanza coraggiosamente la morte, albergavo una
lancinante voglia di tutto, di tutte le esperienze umane pensabili, e
imprecavo alla mia vita precedente, che mi pareva di avere sfruttato poco
e male, e mi sentivo il tempo scappare di fra le dita, sfuggire dal corpo
minuto per minuto, come un’emorragia non più arrestabile. Certo, che
avrei cercato l’oro: non per arricchire, ma per sperimentare un’arte
nuova, per rivisitare la terra l’aria e l’acqua, da cui mi separava
una voragine ogni giorno più larga: e per ritrovare il mio mestiere
chimico nella sua forma essenziale e primordiale, la «Scheidekunst»,
appunto, l’arte di separare il metallo dalla ganga.
- Non lo vendo mica tutto,
- continuava l’altro: - ci sono troppo affezionato. Ne tengo un po’ da
parte e lo fondo, due volte all’anno, e lo lavoro: non sono un artigiano
ma mi piace averlo in mano, batterlo col martello, inciderlo, graffiarlo.
Non mi interessa diventare ricco: mi importa vivere libero, non avere un
collare come i cani, lavorare così, quando voglio, senza nessuno che mi
venga a dire «su, avanti». Per questo soffro a stare qui dentro; e poi,
oltre a tutto, si perde giornata.
Il milite diede un crollo
nel sonno, e il mitra che teneva fra le ginocchia cadde a terra con
fracasso. Lo sconosciuto ed io ci scambiammo un rapido sguardo, ci
comprendemmo al volo, ci alzammo di scatto dalla panca: ma non facemmo in
tempo a muovere un passo che già il milite aveva raccattato l’arma. Si
ricompose, guardò l’orologio, bestemmiò in veneto, e ci disse
ruvidamente che era tempo di rientrare in cella. Nel corridoio incontrammo
Guido e Aldo, che, scortati da un altro sorvegliante, si avviavano a
prendere il nostro posto nell’afa polverosa della caldaia: mi salutarono
con un cenno del capo.
Nella cella mi riaccolse
la solitudine, il fiato gelido e puro delle montagne che penetrava dalla
finestrella, e l’angoscia del domani. Tendendo l’orecchio, nel
silenzio del coprifuoco si sentiva il mormorio della Dora, amica perduta,
e tutti gli amici erano perduti, e la giovinezza e la gioia, e forse la
vita: scorreva vicina ma indifferente, trascinando l’oro nel suo grembo
di ghiaccio fuso. Mi sentivo attanagliato da un’invidia dolorosa per il
mio ambiguo compagno, che presto sarebbe ritornato alla sua vita precaria
ma mostruosamente libera, al suo inesauribile rigagnolo d’oro, ad una
fila di giorni senza fine.
fine
Vedi
una descrizione (a caso) di
"gita
aurifera" riguardante la Dora.