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CARLO VAUTERO
(località Feletto). Citando i
Vautero ci si trova nella vera e propria " elite" dei pescatori d'oro canavesani: si tratta
di una famiglia in cui la pratica di questo attività trova
probabilmente radice
già dal tempo di alcuni loro ormai dimenticati antenati. Carlo (1906 -
1976)
era noto sin da ragazzino con il soprannome di
"Gat" per via della sua indole vivace e spericolata. La guerra
lo costrinse a varie vicissitudini, tra queste anche quella di dover
lavorare come minatore in Germania, ma lì ci restò giusto il tempo
necessario a trovare un modo di fuggire, cosa che fece, tornando quindi in
Italia a fare il partigiano e a dedicarsi alla sua amata Eva
d'Or, cioè il fiume Orco.
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Sul fiume ci si recava con i figli Pierino e Giovanni:
quest'ultimo
(che inoltre ha proseguito brillantemente sino ai giorni nostri la
tradizione di famiglia) ricorda quelle giornate trascorse sulle "punte" e racconta
che lavoravano solitamente in due gruppi: quello composto dai due figli,
insieme ad un amico, e quello costituito dai "vecchi", che
erano Carlo, Antonio Frola e Antonio Bonomo. Inutile dire che i due
gruppi erano sempre in combattiva e affabile concorrenza.
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Durante l'inverno solitamente partiva, anche per più giorni, alla
volta dei fiumi del biellese, dormendo un po' dove capitava ed offrendo
anche la propria mano d'opera nelle cascine in cambio di alloggio e
qualcosa da mangiare. Il tempo che gli restava libero lo
trascorreva sui fiumi, a setacciare: questo girovagare era cosa consueta
a molti cercatori perché in realtà non aveva il solo scopo del trovare
un po' di oro, ma soprattutto alleggeriva la casa di una bocca da
sfamare. Non erano tempi facili. A tal proposito il figlio Giovanni ci
racconta che suo padre da giovane (negli anni '30) era così povero che
quando si sposò poté offrire alla sposa solo un anello di ferro e che
quando in seguito riuscì a realizzare due vere fedi d'oro, nel
frattempo era sopraggiunta la guerra e dovette darle alla Patria.
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DOMENICO VOTA
(San Benigno). A parlarci di quest'uomo, nato nel 1874 e morto nel
1956, è la figlia Maria: " il soprannome a mio padre venne dal
fatto che, emigrato in America a lavorare nelle miniere di carbone, nei
giorni liberi andava a pescare nell' Oceano e un giorno catturò un
delfino ... La permanenza americana di mio padre durò 13 anni: era
sposato ed aveva avuto nel 1899 un figlio, Francesco e per mantenere la
famigliola aveva dovuto partire. Tornò alla vigilia della guerra
mondiale e dal 1914 al 1919 ebbe altri tre figli. Fu richiamato per la
guerra, ma poi inviato a casa quando Francesco venne di Leva: Francesco
ritornò dal conflitto talmente malandato che non si riprese più e
morì, per malattia contratta sul fronte, dieci anni più tardi. Anche
l'altro mio fratello, Marco, verrà ucciso dalla guerra: alpino in
Albania, nel 1941 subirà congelamenti così gravi che lo uccideranno
nel giro di pochi giorni.
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Mia sorella Caterina ed io aiutammo mio
padre a cercare oro, ma solo da bambine perché a 12 anni eravamo già
in fabbrica e con orari impossibili. D'autunno saltavamo la scuola e
papà ci portava con sé ad aiutarlo: perché mio padre era contadino, ma il
terreno che lavorava lo aveva in affitto e quando si avvicinava novembre
bisognava pagare e di soldi non ce n'erano. Mio padre allora andava a
cercar oro tra le località di San Rocco e San Emiliano. Si partiva
prima dell'alba, con la carriola, i soliti strumenti, qualche patata ed
un boccettino d'olio d'arachide. A mezzogiorno si sarebbe poi acceso un
fuoco (anche per scaldarci) per far bollire le patate e quello era tutto
il nostro pranzo". |
Dopo una bella camminata ed aver individuato un
andito promettente, mentre Maria sgombrava il terreno dalla pietre più
grosse Domenico preparava il ponte e piazzava la canaletta, ma la punta
era solitamente distante decine di metri dall'acqua ed occorreva
tracciare anche un sentierino per farvi correre la carriola a
trasportare al ponte, per tutta la mattinata, la sabbia già setacciata.
Al pomeriggio la figlia Maria faceva scendere a poco a poco la sabbia
alla canaletta, infine il lavoro con il gave (batea): e tutto per pochi
grammi, in ogni caso mai oltre i venti. Per invogliare la figlia le
diceva che le avrebbe comprato gli orecchini, ma non ce la fece mai:
scendeva a Torino a vendere il suo oro e poi portava i soldi ai padroni
della sua terra. Gli anni passarono e durante l'ultima guerra ad
aiutarlo ci pensò il marito di Maria, Giovanni Notario, ma quando
questi morì alla sola età di 34 anni, Giovanni non volle più saperne
di andare per oro. Sei anni dopo toccava a lui andarsene per sempre. |
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VITTORIO
GHIGLIONE (di Castellamonte) noto con il soprannome di Ceiu, faceva
"quel che gli capitava": fu contadino, cavatore di terra, pescatore d'oro
nonché raccoglitore di bacche di ginepro. Ebbe sei figlie, di cui tre morte
ancora bambine; delle altre, una è la signora Maria che gentilmente ci
ha reso
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partecipi di questi suoi ricordi: "...In autunno |
la classica canaletta canavesana |
partivamo di mattina presto, lui e noi ragazze per recarci a piedi a Monti Pelati
di Baldissero a raccogliere bacche. La Domenica mattina, si partiva di
nuovo, sempre a piedi, fino ai cascinali di San Martino Strambino,
Perosa, Scarmagno, Romano. I contadini compravano volentieri le nostre
bacche, un toccasana contro le indigestioni dei bovini. Il prezzo era di
due lire il coppo e di quattro lire la minella ( cioè una "emina"
piccola). |
Quanto detto sopra rende l'idea sul modo di vivere
(siamo negli anni venti...) o, meglio, di sopravvivere delle povere
famiglie di 60 o 70 anni fa. In quella del Ceiu i pochi soldi entravano
dunque anche con l'oro che egli andò però ben poche volte a cercare
nell'Orco perché lo trovava invece in due ruscelli che scendono
poco distanti dalla Casa Talentino: uno presso la Ca' Cresto,
l'altro a pochi passi, il rio Pagliero, che in realtà era sempre
quasi asciutto: ma quando c'era un temporalaccio il ruscello si gonfiava
a torrente. Dopo queste piogge il Ceiu, alla prima domenica, andava a
pescare oro, spesso portandosi come compagnia e aiuto una delle figlie
allora bambine. E così ora Maria ricorda quel lavoro, che iniziava con
l'eliminazione della sabbia terrosa di superficie e l'estrazione di
quella più profonda per farne un mucchio; e poi 'l'uso della "canal",
che dalla descrizione che ce ne viene fatta era diversa da quello usate
oggi, non avendo le liste o gli incavi lineari, ma piuttosto dei buchi
sparsi senza un ordine preciso. "Diceva papà Ceiu, il segreto è
qui: gli altri cercano l'oro e non lo trovano perché non hanno la
canalina adatta e non sanno piazzarla a dovere". |
La sabbia raccolta nella canalina passava nella
"scuèla", cioè nella batea analoga a quella usata oggi (ma
in legno) ed infine la sabbia arricchita veniva posta in quel mezzo corno di bovino di cui si trova
talvolta menzione in vecchi scritti, ma non più usato oggi. Risulta che il Ceiu infine separasse manualmente le pagliuzze
più grosse, mentre sottoponeva quelle più piccole e la polvere alla
amalgamazione con mercurio: tolta l'impurità affiorante dall'amalgama
poneva il residuo in un cucchiaio metallico, che veniva scaldato; in un
pezzo di tela ("tibe' nero", specifica la signora Maria)
l'amalgama, strizzato in questa specie di filtro, permetteva all'oro di
uscirne puro. La pesca, si protraeva per 4-5 domeniche successive, dopo
ogni temporale violento; l'oro veniva venduto a uno degli orefici di
Castellamonte (Allaire o Enrietti) e rendeva da 10 a 12 lire in tutto. |
Chi cerca oro nel Pagliero oggi non ne
trova più. |
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GIACOMO
CHIAVENTONE (di Rivarolo). ...e gli occhi vivacissimi di
quest'uomo dal corpo invecchiato da mille fatiche e forse soprattutto
dalla tremenda esperienza dei lager nazisti rilucono nel ricordo del
giorno in cui l'assaggio di una punta fece brillare nella batea una
quantità mai vista di pagliuzze. Fu un avvenimento eccezionale che
durò pochissimi giorni, ma che fruttò la media di alcuni grammi d'oro per
ogni ora di lavoro. |
Nato nel 1910, a 12 anni si era aggregato ad un
gruppo di cercatori felettesi; voleva imparare il mestiere e l'unico
modo per riuscirci consisteva nel faticare gratuitamente a portar secchi
di sabbia, a spostar pietre, a fare le "storte" di
alimentazione delle canalette e tutto questo "guardando bene",
perché quella era l'unica, seppur preziosa, paga per la sua fatica. E
imparò così bene che attaccò il suo entusiasmo anche al padre
muratore ed iniziarono così insieme ad alternare i due lavori. |
Giacomo Chiaventone di oro ne ha cavato parecchio
dalle sabbie dei torrenti canavesani e biellesi: ne trovò di bello nel
Ceronda,, passò settimane sull'Elvo o sul Cervo, fece puntate qua e là
sino al Ticino, ma l'Orco era il suo preferito, soprattutto nella zona
compresa tra Salassa e Rivarolo. |
Spirito un po' ribelle e libertario, non amava il
lavoro dipendente, che d'altra parte la prepotenza politica di allora
gli negava; gli offrì però il servizio di leva, il richiamo, un
soggiorno con il IV Alpini in Iugoslavia e la lunga dolorosa prigionia
in Germania, dalla quale si riprenderà faticosamente. |
Ma la vocazione per la pesca dell'oro non l'aveva mai
abbandonato e la sua attività proseguì infatti fino ai giorni nostri,
quando dovette interromperla per motivi di salute. I suoi ricordi ci
portano a giornate difficili che hanno ben poco da spartire con lo svago
del cercatore amatoriale di oggi: ci parla delle erbacce raccolte per
coprire la punta affinché il freddo della notte non le gelasse, e
quando questo non bastava perché il gelo avrebbe bloccato comunque ogni
ricerca, si andava allora a pescare sabbia direttamente dentro all'acqua
corrente, con tecniche particolari e più difficili. |
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