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Pestarena Macugnaga

 

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pubbl. di Miniere d' Oro,(2003) 

 web.tiscali.it/minieredoro(2004)

Storia di una miniera 

(un pregevole resoconto storico di Sandro Dalmastro)

Secondo la tradizione i piu antichi sfruttatori dei giacimenti auriferi di Pestarena, nell'alta Val Anzasca, furono i Celti prima ed i Romani poi. Tuttavia occorre arrivare fino al 1291 perché la leggenda su questa celebre miniera d'oro diventi storia. E' di quell'anno, infatti, il trattato di pace stipulato fra il Conte di Biandrate e gli abitanti delle valli dell'Anza e di Saas, in cui si fa per la prima volta cenno a dei non meglio precisati "homines argeatarii" cioè "uomini dell'argento". Sul finire del '700 la resa media delle miniere di Pestarena si aggirava sui 12-18 grammi di oro puro per quintale e la coltivazione in galleria interessava ormai anche le valli confluenti fino alla notevole profondità di 400 metri sotto il livello del suolo. In quegli anni le principali difficoltà erano costituite dalle frequentissime infiltrazioni d'acqua in galleria, comprensibili se si pensa che alcuni pozzi dei più profondi raggiungevano il livello del torrente Anza nel fondo valle e che le opere idriche erano ancora molto embrionali e poco pratiche. Verso gli ultimi decenni dell'800 le miniere vennero sfruttate, senza molta fortuna, da una finanziaria inglese per passare, poi, all'inizio del nostro secolo, in concessione alla Società Ceretti di Villadossola che vi realizzò alcune importanti opere di scavo e di consolidamento, estendendo la rete delle gallerie ad oltre cinquanta chilometri. Nel 1938 gli impianti passarono all'Azienda Minerali Metallici Italiani, una società statale che li sfrutterà con alterna fortuna fino al 1954, anno della loro prima chiusura. Persa la signoria della valle alla fine del 1700, i Borromei riuscirono tuttavia a conservare la "decima" sulle miniere, che nel frattempo erano state concesse in sfruttamento al capitano Bartolomeo Testoni. E' certamente questa una delle figure più leggendarie tra quelle che popolano la storia della ricerca dell'oro nella valle dell'Anza. Dotato di un fiuto nella ricerca e di un dinamismo imprenditoriale davvero inusuali per l'epoca, fu un vero e proprio ingegnere minerario "ante litteram", coltivando nuovi filoni con grande profitto ed arricchendosi in breve tempo. Non minore fortuna toccò, alcuni anni più tardi, ad un altro capitano minatore: Pietro Giordano di Alagna, appaltatore dei lavori di scavo che iniziarono vicino al ponte, nella frazione di Borca. Con questo nome erano verosimilmente indicati i minatori che impiegavano il mercurio ("argentum" nel latino volgare dell'epoca...?) per estrarre, con il metodo dell'amalgamazione, l'oro dal materiale sterile. Solo all'inizio del 1400, però, con l'avvento in valle del capitano di ventura Facino Cane, ha inizio l'epoca del vero e proprio sfruttamento razionale dei filoni auriferi. E' questo il periodo in cui la coltivazione dei giacimenti subisce un netto incremento, grazie a geniali innovazioni nella tecnologia estrattiva e nell'arricchimento del minerale. Scacciati i discendenti di Facino Cane intorno al 1430, arrivarono in valle i Borromei, che avevano nel frattempo acquisito il diritto di concessione su tutte le miniere dal duca Gian Galeazzo Visconti. Pare, tuttavia, che la qualità della loro gestione "mineraria" della valle Anzasca fosse nettamente inferiore a quella politico-militare, cosicché fino a tutto il '700 gli impianti lavorarono a ritmo ridotto, con rese assai meno proficue di quelle ottenute due secoli prima dai loro predecessori. A cavallo del periodo bellico la produzione raggiunse i massimi vertici nella secolare storia della miniera, grazie ad un aumento considerevole della mano d'opera; tuttavia la gestione statale non fu certo un modello di efficienza e di sicurezza e l'assoluta mancanza delle più elementari misure profilattiche causò in quegli anni un aumento impressionante dei casi di mortalità per silicosi. Nel dopoguerra la produzione riprese tra molte difficoltà, dovute soprattutto all' equilibrio tra i prezzi di costo e quelli di realizzo ed alla mancanza degli iperbolici premi di produzione che la Banca d'Italia aveva continuamente elargito nel periodo autarchico del regime. Così, dopo alterne vicende, nel 1961 si giunse alla definitiva chiusura degli impianti.

Sandro Dalmastro

 

 

 

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